Dato che produrre latte in un moderno allevamento non è una forma di reddito di cittadinanza, ma un’attività economica che produce reddito solo se quanto si produce è venduto a un prezzo in grado di coprire i costi di produzione, l’accordo recente sul prezzo del latte in Lombardia mette in primo piano con estrema brutalità alcuni aspetti che non sempre il settore della produzione ha considerato con attenzione.
Cito ordine sparso dieci punti, ovviamente del tutto sindacabili e opinabili. Sarò ben felice di leggere commenti e critiche.
- La quantità che si produce non è una variabile indipendente dal mercato, ma dipende proprio da quanto il mercato dei prodotti finiti (che siano latte o derivati) è in grado di assorbire e pagare. Questa quantità, a sua volta, varia, a volte anche drammaticamente, in funzione di eventi esterni imprevisti, come nel caso della recente pandemia. Pensare che chi sta a monte non sia toccato da quello che avviene a valle è illusione.
- La grande maggioranza di chi produce latte non ha il minimo controllo delle dinamiche industriali e commerciali del prodotto che vende. Per tante ragioni storiche negli anni e nei decenni passati tutto ciò è stato delegato in toto ad altri per volumi sempre più importanti di latte.
- Il latte italiano, malgrado tante belle omelie in proposito dei tanti gran sacerdoti del made in Italy da talk show – eccetto quello dei circuiti Dop – è scivolato inesorabilmente verso il livello commodity, quindi sempre meno distinguibile da quello di importazione e quindi sempre più vicino ad esso quanto a prezzo.
- Diventare una commodity è una malattia mortale per il latte italiano e per chi lo produce. Tuttavia si esce dal recinto della commodity se si è in grado di offrire un prodotto oggettivamente differente, percepito come tale dal consumatore e, prima di esso, da chi lo acquista. Questo non è avvenuto o solo in maniera sporadica, per singole eccezioni, non per bacini di produzione. Produrre latte commodity significa pertanto essere sostituibile, aggiungendo debolezza contrattuale e una situazione già critica.
- Il mondo della produzione non ha mai investito nella comunicazione, per spiegare al consumatore finale perché il latte italiano va preferito. Salvo, anche qui, lodevoli eccezioni, ma mai con un progetto strategico, unitario, di ampio respiro.
- Il benessere animale (con le sue classificazioni) ormai è diventato una condizione indispensabile per il ritiro del latte. Quello che ora è un obbligo avrebbe potuto essere un obiettivo ambizioso da porsi come filiera produttiva, da realizzare volontariamente, comunicandolo in maniera adeguata, per dare valore aggiunto e caratterizzazione del latte nazionale. Ciò che è avvenuto con il benessere animale si ripeterà in futuro con altri aspetti, ad esempio l’impronta carbonica. Quello che oggi si potrebbe fare su base volontaria e aggiungendo valore, domani, se non si fa nulla, diventerà un obbligo imposto per il ritiro del latte, lasciando il valore aggiunto altrove nella filiera.
- Gli investimenti vanno considerati nella loro reale capacità di migliorare il reddito, cosa che è sempre meno legato all’aumento della produzione (di fatto ingabbiata in nuove quote) e sempre più a una razionalizzazione della gestione e a una riduzione dei costi. Tutto ciò impone una attenzione estrema agli aspetti economico-finanziari della stalla che ora è solo di pochi.
- Prezzi del latte bassi e quantità bloccate rendono indispensabile avere la massima qualità del latte prodotto per sfruttare tutto quanto è sfruttabile dai premi qualità.
- La questione della terra non può più essere disattesa. Serve un aggancio reale tra produzione di latte, numero di capi e terra a disposizione. C’è un benessere animale da rispettare, ma anche un “benessere agronomico” del latte prodotto a cui nessuno bada, anche perché, per chi ritira il latte, è utile avere tanto latte tra cui scegliere, cosa facilitata da tanti raddoppi o triplicazioni di strutture esistenti. Ma il problema dovrebbe essere sollevato da chi produce e deve salvaguardare il tessuto produttivo diffuso, non certo dall’industria.
- Ora, a fronte di tutto questo, cosa si può pensare di ottenere se il mondo di chi rappresenta gli allevatori ai tavoli delle trattative è così drammaticamente spaccato e in guerra? Chi può rilanciare, alzare l’asticella, mettendo sul piatto della bilancia obiettivi ambiziosi sul versante della caratterizzazione del latte italiano, in grado di aggiungere argomenti nuovi e uscire dalla logica sempre uguale e sempre nei fatti perdente delle tante trattative fatte negli anni? No, non c’è da essere ottimisti. Si può criticare la controparte industriale quanto si vuole, anche con una certa legittimità per la sua capacità di trarre il massimo beneficio, ma questo non cambia la sostanza.
Se si lascia l’attaccante avversario ripetutamente davanti alla porta sguarnita il fatto che poi faccia sempre gol è solo una logica conseguenza.


buone considerazioni
Perché a nessuno viene in mente che in Italia c’è una legge che impone il prezzo del latte almeno pari ai costi di produzione, con tanto di incarico ad Ismea nella redazione delle tabelle, forse perché non ci sono le sanzioni… “Basterebbe” definirle. I caseifici sono tutti fuorilegge!
Opinione legittima, ma finché è un regime di libero mercato non vedo questa strada percorribile.