Si può fare uno spot che non promuova un prodotto ma, fondamentalmente, una categoria di persone che quel prodotto lo fanno uscire dalla loro passione, dal loro impegno, dalle ore e ore passate a fare un lavoro che non cambierebbero per niente al mondo.
Si può fare uno spot elegante, sofisticato nella forma e genuino nella sostanza, che afferra l’emotività ma fa vedere in filigrana, come una banconota, tutta la razionalità che la sostiene.
Si può dire che si alleva nel rispetto del benessere animale, che si usano alimenti sani, che c’è un controllo continuo e assiduo di ogni passo, di ogni procedura, di ogni operazione.
Si può dire che ciò che esce dalla stalla è sicuro, buono, frutto di amore per la terra, per gli animali, per sé stessi.
Si può dire tutto questo in poche decine di secondi, proponendo storie di persone diverse ma, in fondo, uguali: appassionate, sincere, anche testarde se vogliamo, nel continuare a dire che credono in ciò che fanno e lo fanno, e continueranno a farlo, prima di tutto perché è la loro storia, la storia che hanno ricevuto e che vorranno dare a chi li seguirà.
Alla fine di ogni spot, di quell’elegante bianco e nero così antico e così sofisticato, passa un messaggio forte, fortissimo: di un allevatore italiano puoi fidarti.
Questo, però, non lo fanno gli allevatori italiani: lo fa (bene) una multinazionale come McDonald’s, che fa ricadere il messaggio di cui sopra sui propri hamburger, con gli spot che stanno tornando sugli schermi in questi giorni.
Gli allevatori non hanno mai pensato che sia necessario promuovere la loro immagine.
Non hanno mai investito in comunicazione efficace per dire le cose come stanno in maniera moderna. Non hanno mai investito in ciò che, evidentemente, hanno sempre ritenuto inutile.
Eppure l’immagine è più che mai sostanza, quando si deve vendere.