L’utilizzo in azienda del toro aziendale è una pratica che resiste. A volte può essere uno degli ingranaggi che muovono l’intero meccanismo.
Per avere qualche spunto ulteriore ho fatto quattro chiacchiere con l’amico Massimiliano Paganini, agronomo novarese e consulente di molte stalle (la sua email è questa: paga17max@libero.it)
I punti che sottolinea, per chi pensi al toro aziendale, sono, schematicamente, questi:
- il possibile miglioramento dei parametri riproduttivi;
- l’aumento dei ricavi ed eventuale differenziazione della produzione grazie all’utilizzo di un toro da carne;
- il miglioramento della programmazione della rimonta grazie all’utilizzo di seme sessato su manze e sulla quota necessaria di vacche;
- il miglioramento della gestione aziendale per la riduzione di animali destinati alla FA, con un impiego di questa principalmente sulle manze che richiedono un’attenzione molto limitata rispetto alle vacche.
Vediamo ora qualche minimo approfondimento.
Un primo aspetto è l’intreccio della questione con l’uso del seme sessato, dato che il suo utilizzo comporta un miglioramento notevole nel raggiungimento della quota di rimonta interna necessaria.
Il numero di animali disponibili per la rimonta è in funzione dei parametri riproduttivi: l’interparto lungo riduce il numero di vitelli nati e una percentuale di riforma allevata aumenta la necessità di rimonta.
Considerando dei valori frequenti anche se non ottimali, con un interparto di 415 giorni e una percentuale di riforma del 50% (numero di parti medio pari a 2), considerando mortalità e scarti di vitelle e manze, si può stimare che, fecondando con il sessato il 100% delle manze, necessita ancora un 28% di femmine dai vitelli nati dalle vacche per coprire i fabbisogni della rimonta (percentuale che può essere raggiunta fecondando con sessato circa il 60%-100% delle primipare, lasciando un range largo per le composizioni molto differenti delle diverse mandrie).
Con una percentuale di riforma pari al 67% (numero di parti medio pari a 1,5), utilizzando il sessato sempre sul 100% delle manze, occorre avere ancora un numero di vitelle femmine nate dalle vacche in produzione pari ad almeno un 35%. Migliorando i parametri, con un interparto di 400 giorni e una percentuale di riforma pari al 40%, può essere necessario solo un 10% di vitelle femmine dalle vacche, oltre al 100% dalle manze.
In ognuna di queste situazioni – spiega Massimiliano Paganini – si ha comunque una quota di vitelli in esubero rispetto al fabbisogno di rimonta, la cui destinazione può essere programmata già in fase di fecondazione.
L’utilizzo del toro aziendale sugli animali in esubero rispetto al fabbisogno interno consente di ridurre su questi l’interparto, i costi di fecondazione e, in base all’organizzazione aziendale, anche quelli di manodopera.
L’utilizzo di un toro da carne consente anche di avere un incremento dei ricavi dalla vendita dei vitelli oppure di disporre di una quota di animali utili alla differenziazione della produzione. Utilizzando tori da razze a duplice attitudine come i pezzati rossi, si possono ottenere, per la parte di femmine ottenute da questi, animali che possono essere destinati alla produzione di latte anche interessanti, soprattutto nella prima generazione destinando poi la seconda alla produzione esclusiva di carne.
Nella scelta degli animali da destinare alla monta naturale è importante scegliere tra i tori soggetti che diano vitelli non eccessivamente grossi e tra le vacche soggetti che non abbiano problemi al parto. È sconsigliabile utilizzare il toro da carne per eventuali manze, come quelle che non si riescono ad ingravidare.
Nell’organizzazione generale è molto funzionale la creazione di un gruppo apposito – chiude Paganini – con la presenza del toro e delle vacche destinate alla rimonta naturale. Questa condizione consente di concentrare meglio l’attenzione sugli animali che rimangono invece tra quelle destinate alla fecondazione artificiale, che possono essere alcuni dei soggetti più giovani e quelli con la genetica e le performance produttive più interessanti.
La differenza eventuale di ambiente deve premiare questo gruppo, ma non deve però penalizzare l’altro per garantire produzione, sanità e comunque la fertilità.
Detto ciò, ovviamente, si tratta di spunti di riflessione, non di dogmi. Concetto sempre da considerare in un settore come quello zootecnico nel quale i dogmi – veri o presunti – non sono pochi.