Fin dall’inizio si capiva che la questione andava al di là del solito blitz di quattro animalisti in una stalla di vacche da latte. L’azienda coinvolta è la più grande degli Usa, ha un nome importante e ha una immagine e una reputazione legate fortemente alle modalità di gestione degli animali, improntate su benessere, rispetto e attenzione.
Poi c’è di mezzo la Coca Cola, che non è proprio una cosina da poco, che per la sua produzione di Fairlife milk aveva stretto una partnership con la Fair Oaks Farms.
Infine la crudezza delle immagini nei filmati diffusi dal gruppo animalista, che lasciano pochi margini alle interpretazioni.
E, infatti, la vicenda ha avuto una grande risonanza non solo in Usa, ma anche sulla stampa internazionale.
Per questo è bene seguirne l’evoluzione, perché, per certi versi, la vicenda può essere guardata come un caso paradigmatico.
Intanto alcuni punti fermi.
- Nessuno è al riparo, nessuno può dirsi escluso da rischi (parlo di stalle): la Fair Oaks Farms – come dichiarato del titolare nel suo messaggio subito dopo la deflagrazione della notizia – è un’azienda che ha sempre puntato sul benessere e su questo punto ha investito e coinvolto i suoi operatori. Evidentemente non è bastato.
- Il personale che lavora in stalla è un fattore critico, quanto più cresce il livello di provvisorietà nelle presenze, il ricambio di soggetti, le difficoltà di comunicazione, l’impossibilità di controllare H24 il lavoro fatto da parte del titolare.
- Le incursioni animaliste sono, di fatto, esentate dal dover rispettare il divieto di infrazione di domicilio: evidentemente gli si riconosce una moralità superiore, tutta da dimostrare, dato che nessuno solleva mai questo punto.
- Bisogna guardare la propria stalla e il lavoro dei propri dipendenti come se in ogni momento potesse esserci un telefonino che filma di nascosto. La quotidianità deve essere sempre cristallina, senza zone grigie.
Detto questo, vediamo cosa c’è di nuovo.
Ebbene, si è mosso lo sceriffo della Contea e ha arrestato uno degli uomini ripresi dal video.
E, a proposito di video, lo stesso gruppo animalista ne ha ora rilasciato un altro sempre legato alla Fair Oaks Farms. Riguarda vacche in mungitura su una giostra, segnalando anche in questo caso maltrattamenti, in particolare riguardo ad alcune tra esse con perdite di sangue, sostenendo trattarsi di vacche che hanno appena partorito.
Dunque, altro sale sulla ferita e altri grattacapi per i titolari della Fair Oaks Farms.
È tutto?
No, e questo è lo sviluppo interessante. Un cittadino californiano ha intentato un’azione legale per frode presso la Corte federale di Chicago. Sostiene di essere un consumatore di Fairlife, che egli acquistava perché veniva spiegato in etichetta che gli allevatori fornitori del latte garantivano una “straordinaria cura degli animali”. Cosa che, a suo dire, evidentemente non è, dati i filmati resi pubblici.
È vero che la Coca Cola fino ad ora non si è dissociata dalla Fair Oaks Farms, appoggiando i passi fatti e le misure annunciate, ma siamo solo all’inizio.
Quello però che vorrei sottolineare è che quando si parla di benessere animale e lo si mette addirittura in etichetta, il percorso non è privo di rischi, come dimostra la causa dell’offeso californiano, che è uno, per ora, ma potrebbe diventare un gruppo e oltre: la sensibilità su questo è alta nel consumatore, specie se danaroso e quindi anche con soldi da spendere in cause legali.
Tanto più se riguarda circuiti Dop che guardano al mondo e hanno mercati ricchi e promettenti dove le attenzioni al benessere animale e alle modalità di trattamento e interazione con gli animali stanno diventando spasmodiche.
Basta una smagliatura, un filmato pirata che mostra ciò che non dovrebbe esserci perché l’etichetta lo garantisce e splaff, la merda finisce nel ventilatore (citazione) e coinvolge tutto e tutti. Aziende, prodotto, reputazione.
Tanto più famoso il marchio, tanto più elevato il rischio.