Riconoscimento del sintomo, diagnosi di laboratorio tempestiva e corretta, valutazione con il veterinario delle opzioni di trattamento più appropriate anziché una routine sempre uguale, più prevenzione e più biosicurezza in stalla.
Queste le mosse per minimizzare i danni della mastite in allevamento e minimizzare altresì il consumo di antibiotici, per avere una prospettiva sostenibile anche nel prossimo futuro, dove il ricorso agli antibiotici in campo veterinario sarà strettamente controllato, con riduzione delle molecole a disposizione e pressione crescente sulla (e della) filiera per ridurre al minimo il consumo di farmaci.
Un approccio, questo, che si dimostra però, dove già praticato, anche conveniente in termini economici, per riduzione dei costi diretti legati all’acquisto di farmaci e per analoga riduzione delle quantità di latte di scarto, riduzione delle cellule, più latte prodotto e premi qualità maggiori.
A questo proposito vi segnalo l’ottimo lavoro del Centro Veterinario Agrilab Lait di Centallo (Cuneo), pubblicato da poco sul settimanale La Settimana Veterinaria (nr. 995 – 8 marzo 2017).
È uno studio di campo con comparazioni tra diversi allevamenti e tanti numeri e cifre che fanno da solido sostegno.
Riporto alcuni spunti volanti tratti dal pregevole lavoro, relativi a quattro aziende da latte che si sono sottoposte al servizio di gestione mastiti del Centro.
Prima dell’adesione da parte degli allevatori al servizio di gestione delle mastiti proposto dal centro veterinario di cui sopra, tutte le stalle prese in esame utilizzavano un antibiotico intramammario senza aver mai eseguito prima esami batteriologici o comunque senza un motivo particolare nella scelta del farmaco.
Durante il periodo di osservazione invece, le bovine sono state trattate con protocolli mirati basati sull’esito dell’esame batteriologico fornito entro le 24 ore e sullo storico della bovina e del singolo quarto in mastite; ogni singola terapia è stata riportata attraverso la registrazione sul software di gestione aziendale.
Sono stati stimati il costo dei singoli protocolli impiegati in allevamento, comprensivi della spesa derivata dal trattamento e il mancato guadagno in termini di latte scartato, calcolato in base al tempo di sospensione e al prezzo del latte valutato a € 0,35/l, con una produzione media delle bovine di 30 litri.
I numeri danno ragione all’approccio oculato.
I risparmi sono stati importanti:
per l’azienda 1 si è passati da una spesa di 10.500 euro a una di 6.036 euro;
per la 2 da 7.640 euro a 3.149 euro;
per la 3 da 2.953 euro a 2.210 euro;
per la 4 da 11.447 euro a 6.773 euro.
Gli autori evidenziano come oltre il 50% degli episodi di mastite non richiedano il ricorso ad antibiotici, per il riscontro di patogeni incurabili, per quarti cronici che non presentano infezioni e per batteri gestibili con terapie non strettamente antibiotiche.
Da evidenziare, inoltre, che la stima economica effettuata nello studio, non ha preso in considerazione i vantaggi ottenibili da una riduzione del valore di cellule somatiche derivante da una gestione oculata delle mastiti cliniche, elemento che è fonte di introiti significativi legati ai premi qualità. Nemmeno dell’aumento di latte conseguente al miglioramento della situazione sanitaria delle mammelle.
Infine, da non sottovalutare – sottolineano gli autori della prova – che un approccio mirato nei confronti dei patogeni aumenta il tasso di successo delle terapie e riduce il rischio di insorgenza di forme persistenti, spesso subcliniche, responsabili di valori di conta cellulare anche molto elevati che influiscono fortemente sul valore del tank.
Complimenti agli autori del lavoro, che dimostrano come la lotta alle antibioticoresistenze possa essere una importante occasione per revisionare il management aziendale, riconsiderando certe pratiche consolidate da anni e anni che, come nel caso dell’approccio alle mastiti, non è detto siano ancora le più convenienti. Per l’ambiente e per il portafoglio.
Ma il fatto di allevare vacche che si ammalano di meno? Mai eh…..