Allevamento a benessere certificato, allevamento etico, allevamento con un po’ più di etica che di benessere, allevamento con più benessere è un po’ meno etica, allevamento con tantissima etica e tantissimo benessere, allevamento e basta.
Le combinazioni si stanno moltiplicando all’infinito e non è un bel segnale.
Non lo è perché significa che si sta allegramente (si fa per dire) marciando in ordine sparso, con l’industria nelle sue varie articolazioni di marchio e segmento che cerca di capire quale sarà la linea premiale per le vendite di latte e derivati nei prossimi anni.
Impresa difficilissima per i responsabili marketing, perché la situazione è quella in cui, arrivati a un certo punto del cammino, ci si trova davanti una quantità di sentieri differenti, che vanno in direzioni diverse, con una cartina che finisce proprio al punto dell’intreccio di sentieri. Ovviamente niente Gps.
Non si riesce a decifrare esattamente quale sarà la parola chiave che orienterà il consumatore. E non è cosa da poco e coinvolge anche chi munge le vacche in stalla, non solo l’industria che fa le robiole o altro.
È un passaggio complicato, perché, come sempre, il consumatore avrebbe certe preferenze ma non vorrebbe pagarne il costo: vuole il benessere, ma anche il prezzo basso, per dire. E poi benessere è tutto e niente, perché ognuno lo declina a modo suo.
Perché qualunque sia la scelta fatta da chi trasforma il latte, essa comporterà nuovi paletti e soglie, chiunque sia a stabilirle, anche per la stalla. E non c’è troppo da illudersi che il consumatore sia disposto a pagare così tanto chi gli dà un certo tipo di prodotto etico: potrebbe scegliere, piuttosto, di non comprare i prodotti non certificati in termini di benessere, ottenendo il suo scopo con il minimo costo.
Non solo.
Assisteremo a varie declinazioni pratiche di benessere e di eticità: simili ma non identiche, che trasformatori piccoli e grandi adotteranno.
Paradossalmente non è detto che chi è “etico” per una filiera lo sarà anche per un’altra, perché potrebbero esserci a monte protocolli differenti che portano a sigilli differenti.
Diverso sarebbe se il mondo della produzione fosse arrivato a questo snodo socio-economico con un suo marchio-benessere (suo intendo di proprietà, registrato) forte di un investimento precedente in comunicazione rivolto al consumatore finale, per fargli sapere e cosa certifichi questo marchio in termini di gestione della stalla, alimentazione degli animali, consumi di farmaci, sostenibilità, strutture. Di benessere, insomma.
Avesse cioè investito in marketing scientifico, in strategia di comunicazione.
Il mondo dei produttori sarebbe ora in possesso di un marchio forte, conosciuto, impossessandosi di un termine – benessere – che ora invece è diventato l’asso di briscola di altri segmenti della filiera.
Avrebbe definito il benessere animale senza aspettare che altri lo definiscano per lui (come sta avvenendo ora) e avrebbe aggiunto un po’ di valore immateriale al latte che produce e vende, perché nel mondo reale saper vendere conta quanto saper produrre.
E magari avrebbe anche facilitato un po’ le cose all’addetto marketing di qualche industria.
Così, invece, ancora una volta chi pensa che a investire nella comunicazione debbano essere gli altri si ritrova tra i piedi l’ennesima pietra di inciampo, sia pure in nome dell’etica e del benessere.
E il produttore deve pure fare il tifo per l’addetto marketing dell’industria a cui consegna il latte, perché se toppa la strategia il problema arriva anche dentro la sua stalla.
E via a scoperchiare un altro vaso di Pandora dal quale usciranno solo impedimenti e scartoffie per chi come me produce latte e lo vuole fare nel modo più efficiente possibile. È ovvio che chi vuol produrre latte in modo efficiente deve badare al benessere del suo allevamento, e mi starebbe bene che venga anche certificato se per certificare non mi si imponga di costruire la stalla ideale per la difesa dei diritti degli animali da allevamento e ritornare a metodi di allevamento il più naturali possibile, ossia lasciare morire le vacche di fame in inverno perché hanno pascolato in primavera e estate! Già il solo sentire parlare di difesa dei diritti degli animali da allevamento da parte di veterinari e agronomi mi fa venire voglia di cambiare lavoro. Legalmente, quando uno lede un diritto, vita e proprietà in primis, se giudicato colpevole, va in galera! Io di andare in galera perché non lascio che le mie vacche allattino i loro vitelli non ci tengo proprio! Da quando faccio l’ allevatore, non ho fatto altro che buttare soldi nel cesso per seguire stupide regole imposte da altri, soprattutto comprando quote latte che tra l’ altro non ho ancora finito di pagare. Ora sono al bivio dove dovrò decidere se continuare a fare sto lavoro e investire ancora soldi per una stalla più efficiente (che è l’ esatto opposto di quella ideale) oppure tirare avanti ancora qualche anno con quello che ho e poi chiudere baracca e burattini e pensare ad altro. Vi lascio immaginare quale strada ho intenzione di prendere ora come ora……. vi do un aiutino….. sarà quella che mi permetterà di mandare tutti quanti a farsi f……..e!