C’è una trattativa TTIP sul libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico: gli Usa spingono per chiudere.
L’export negli Usa dei nostri formaggi di eccellenza cresce, cresce, e potrebbe crescere ancora molto, ma incontra ostacoli crescenti: barriere all’ingresso, dazi doganali, costi crescenti per le imprese che esportano. E poi ci sono i requisiti igienico sanitari richiesti, diversi da quelli europei, che obbligano le imprese italiane a specifiche e costose certificazioni.
Gli Usa stanno facendo passi da gigante nell’export di formaggi: la produzione statunitense di formaggi (fonte Assolatte) cresce ininterrottamente da 12 anni e l’export è aumentato del 688% tra il 2000 e 2014.
Nella grande produzione americana di formaggi spopola l’italian sounding, e la concorrenza dei fake italians ai veri italiani Dop è spietata, le etichette e i marchi ingannevoli prosperano e tutto è fatto per camuffare di italiano quello che italiano non è.
Prima di fare la somma mettiamoci la proverbiale capacità italiana a livello istituzionale di far valere le proprie ragioni e tutelare i propri interessi nelle sedi internazionali (la penosa bibliografia degli esempi è troppo ampia per essere citata).
Ebbene, tutto ciò premesso: non è che alla fine arriveranno qui le navi di finto Grana dagli Usa e i nostri formaggi resteranno invece sui moli, bloccati da qualche parametro microbiologico prêt-à-porter, tirato fuori del cilindro in base alla necessità commerciale del momento?
E non dimentichiamo la questione Aflatossina: in Usa i limiti sono dieci volte superiori. Finirà che si danno mazzate ai produttori italiani perché superano un limite dieci volte inferiore a quello americano, con latte che poi diventa formaggio che poi arriva sulla nostre tavole.
Passare dai fake italians al fuck italians è questione di un attimo.