“Il lato oscuro del latte: la vita solitaria dei vitelli chiusi per mesi in piccoli box”.
Questo il titolo di un pezzo del Corriere di non molto tempo fa.
Riprendeva un articolo del Guardian inglese, in prima linea nel diffondere il verbo dell’animalismo e della revisione della storia (a volte viene anche da pensare del buon senso) alla luce della lampada animalista.
Qui l’accento veniva messo sulle gabbiette per i vitelli, ove i poveretti sarebbero costretti a stare per “mesi” con tutto quel che ne segue di tristezze e turpitudini, trama e ordito dell’allevamento razionale.
Questo messaggio, e altri analoghi momenti di comunicazione sul tema animalista, sfrutta una chiave basilare.
Quale? L’emotività, ossia il colpo diretto nella pancia (una foto, un breve filmato, qualche frase a corredo), breve, rapido, comprensibile da chiunque, memorizzabile.
Quando ci si trova colpiti da queste bordate in Agricolandia ci si arrabbia, giustamente, per quanta inesattezza ci sia in quanto affermato, ma la reazione è assai poco efficace. Si spiega, si ragiona, si motiva, si elencano studi e trattati…
Si va a colpire, per farla breve, la sfera razionale più che quella emotiva.
Ma, quando si tratta di acquisti – perché in ultima analisi se non c’è chi acquista il prodotto che si fa tutto finisce – è la parte emotiva del consumatore che comanda (salvo la ridotta frazione del consumatore nerd che legge le etichette dalla prima all’ultima riga, eventualmente rilegge e sta al banco frigor come fosse in biblioteca). Quella razionale viene poi, trova giustificazioni alla scelta emotiva, ma non è quella che comanda il gioco.
Per dire: quando siete colpiti da una donna (o viceversa) non ci arrivate per un complesso percorso di analisi morfometrica. Piuttosto si accende una luce immediata e poi, solo poi, trovate argomenti razionali che rafforzano e sostengono il colpo iniziale.
Vale anche per la pubblicità. È chiaro che, quando questa riguarda il latte e i suoi derivati, l’industria (i produttori, magari associati, hanno invece sempre pensato, nella grande maggioranza, che fosse inutile raccontarsi con scientificità comunicativa al consumatore: si vede il bel risultato) l’industria, dicevo, usa messaggi semplici, emotivi, di impatto, spesso lontani dalla realtà di chi alleva e produce.
C’è chi si arrabbia, ma questa è la comunicazione bellezza! Non puoi farci niente.
O, meglio, puoi usare le stesse tecniche.
E allora torniamo al vitello che geme solingo nelle gabbiette, mesi e mesi di triste inedia secondo la vulgata animalista.
È inutile pensare di conquistare l’emotività della platea (che ignora nella sua quasi totalità cosa sia un allevamento da latte) ribattendo al colpo secco con panegirici, ragionamenti e bla bla bla serissimi, veri ma inefficaci.
Quelli vengono dopo. Prima si conquista l’emotività, poi la razionalità.
Dunque, per fare un piccolo esempio. Pensiamo all’immagine dei vitelli nei loro box singoli e confrontiamola con quella (tratta dal sito di Coldiretti Molise) di un vitello che non era nel box singolo, era felice e saltellante nel verde praticello… fino a che è stato sbranato da un lupo.
In quale delle due situazioni è stato maggiormente rispettato il benessere animale?
Chiedetelo a cento persone, otterrete da tutte e cento la stessa risposta.
Uno a zero per noi, e palla al centro.