In un recente webinar dedicato (tanto per cambiare) a benessere e sostenibilità nelle produzioni zootecniche (si parlava di suini e salumifici, ma i concetti sono trasferibili pari pari) ho ascoltato alcuni concetti interessanti che ignoravo. Concetti che indicano come la questione, per chi alleva, è tutt’altro che marginale.
Anzi, basilare.
Il primo punto è che gli orientamenti del consumatore sono cambiati e nel concetto di qualità mette prepotentemente anche la faccenda di come gli animali sono allevati e di quanto è rispettata la sostenibilità in generale. E, fin qui, niente di nuovo. Del resto un sondaggio Eurobarometro del 2016 registrava in una sua indagine che il 57% degli intervistati considerava estremamente importante il benessere animale e il 37% lo considerava importante. Quindi, il concetto è chiaro: la qualità è fatta anche di benessere animale. O, meglio, il benessere animale è ormai un pre-requisito.
Ma ora viene il bello, o il brutto, come preferite.
Anche in agricoltura, ci sono importanti fondi di investimento che mettono soldi in aziende che offrono standard di benessere animale e sostenibilità superiori a quanto richiesto dalla normativa. Aziende, ovviamente, che sono colossi, che operano su scala planetaria, sono quotate in borsa. Aziende che sono in grado quindi con le loro scelte di influenzare le modalità di produzione quanto e addirittura più della normativa nazionale.
Direttamente, dettando regole ai loro fornitori, e perché fanno scuola a tutte le aziende più piccole.
Modalità di produzione definite secondo protocolli che sono poi validati da enti terzi sovrannazionali, che “timbrano” la correttezza di queste produzioni secondo standard maggiori di benessere. Niente “timbro”? Il fondo di investimento dirotta i suoi soldi (e sono tanti) da un’altra parte. Insomma, l’azienda non ha alternative. La strada è segnata e, a cascata, tutto ciò che sta a valle si deve adattare. O, meglio: può non adattarsi, ma allora è out.
Capite quindi che parlare di benessere e sostenibilità e trovare il modo di posizionarsi al meglio non è un optional, ma una necessità strategica.
Ma qui arriviamo a un nodo non da poco: per essere efficaci bisogna essere in filiera. Tanti produttori cioè (il singolo può fare poco) che si legano, definiscono una road map per il benessere e la sostenibilità andando oltre i limiti di legge, individuano obiettivi e modalità di lavoro, si fanno validare il percorso da un ente terzo, mettono tutto questo sul “mercato” e lo comunicano al consumatore come se non ci fosse un domani.
Facendo cioè in anticipo (andare oltre il requisito di legge) quello che poi potrebbe diventare la nuova regola. I grossi calibri hanno imboccato questa strada e, in genere, non chiedono il permesso ai piccoli.

