Il tema della fissazione di carbonio nel suolo, riducendo così la proliferazione dei gas serra, è di quelli che non possono essere guardati con disinteresse.
Non solo per una questione etica, ma anche per puro interesse.
Devono essere cioè visti come una leva per alzare i redditi aziendali del mondo della produzione agro-zootecnica. Come uno degli scenari su cui darci dentro per aumentare il valore del prodotto latte, facile da comunicare, facile da capire.
Non basta dire che si fanno latte e carne di ottima qualità.
Bisogna far capire – e far pagare – il fatto che, così facendo, si contribuisce al contenimento del surriscaldamento globale.
Rinviando così al mittente le accuse, nemmeno tanto velate, che proprio l’allevamento sia uno dei responsabili delle emissioni di gas serra. Su questo ci sono orecchie attente a tutti i livelli, dal consumatore al politico.
Sicuramente più di quanto lo siano – al di là delle chiacchiere – ai temi della qualità: se lo fossero realmente la pagherebbero (i consumatori) o la sosterrebbero (la politica in generale).
Invece sul clima tutti sono d’accordo e l’impatto mediatico dell’argomento – Greta docet – è fortissimo, forse – dice qualcuno tra i ricercatori eretici – anche superiore all’effettiva magnitudo del problema.
Ma questo è un altro discorso.
Quello che conta in chiave marketing è:
- il surriscaldamento globale è un dato accettato e metabolizzato da tutti, consumatori compresi;
- idem per la CO2, diventata una molecola vista malissimo da tutti (certo, sarebbe bello spiegare ai moltissimi che la criminalizzano il meccanismo della fotosintesi e come senza CO2 non ci sarebbe pane per nessuno…);
- l’attività agricola e zootecnica fatta in un certo modo virtuoso libera meno CO2 di quanta ne blocchi. Questo, beninteso, se il processo produttivo è orientato a questo scopo, dalle minime lavorazioni fino alla consegna, passando per il biogas, e per una razionale gestione delle deiezioni che ne faccia un produttore di energia e uno strumento di riduzione dell’uso di concimi chimici.
- dietro ogni litro di latte potrebbe esserci quindi (spesso c’è), oltre a tutta la qualità che sappiamo, anche un tot di CO2 bloccata e quindi un contributo al rallentamento del riscaldamento globale causato da altri settori.
In tutto questo ci sono spiragli per un aumento di valore da cogliere, unendo al bianco del latte il verde della sua azione sul clima. Magari creando – in accordo con industria e Grande distribuzione – linee specifiche di prodotto “salvaclima” e scrivendo su ogni confezione quanta CO2 ha bloccato al suolo questo singolo litro di latte.
Può essere un obiettivo alla portata della singola azienda? Difficile. Ma tutto è difficile se si agisce individualmente. Al contrario tutto diventa più facile se si agisce in gruppo, unendo sforzi, obiettivi e risorse in protocolli di lavoro volontari, comunicati bene.
Tutto quanto che viene prodotto, quando viene prodotto in maniera green, acquista valore. Perché non può essere così anche per il latte?