Mentre le maree di latte inondano i mercati e affogano i prezzi, c’è un settore che mostra esattamente un segno contrario: più domanda che prodotto.
E si tratta di una domanda di qualità, perché – è del latte biologico che si parla – chi guarda a questo prodotto è in genere un consumatore che tra i suoi problemi più urgenti non ha quello di arrivare a fine mese.
Non solo. È un consumatore più attento di altri a quella galassia di elementi che nessun analista potrà trovare in laboratorio, ma che sono egualmente importanti nel definire un’idea di qualità per cui si è disposti a pagare: benessere degli animali allevati, sostenibilità ambientale, legame col territorio, colori e tradizioni del bel tempo andato.
Fa niente se poi il confine tra la fuffa e la realtà, inerpicandosi sui sentieri arcani dell’immaginario del consumatore, a volte diviene labile. Questo vuole? Per questo è disposto a pagare di più? Ebbene, questo bisogna essere in grado di dargli.
Torniamo a noi.
Il latte bio – chiamiamolo così per semplicità, come se potesse esistere un latte non biologico – il latte bio, dicevamo, è tutt’altro che una cosa effimera, come è stato ribadito nei giorni scorsi in un interessante convegno promosso da Cia Emilia Romagna. Vediamo qualche numero.
Secondo i dati del Sinab (il Sistema nazionale di informazione sull’agricoltura biologica del Ministero per le Politiche agricole) il patrimonio nazionale dei bovini da latte bio raggiunge oggi circa le 45mila unità, pari al 20% di tutto il bestiame bovino presente negli allevamenti biologici (285.000).
Riguardo alla produzione di latte, la stima elaborata da Ismea parla, per il 2014, di un quantitativo totale superiore ai 300 milioni di litri (pari al 2.7% del totale del latte prodotto in Italia) per un valore alla produzione di 158milioni di euro, pari al 3.5% della PPB nazionale, ovvero il valore della produzione ai prezzi di base) con un premium price riconosciuto alla stalla del 28% superiore a quello destinato al latte convenzionale.
E sul fronte dei consumi si registra una crescita continua. “La domanda per i prodotti biologici, infatti, ha continuato a crescere a ritmi che l’offerta non è riuscita a coprire – ha spiegato Alberto Menghi del Crpa – e si è generato un differenziale di prezzi tra latte biologico e convenzionale interessante nell’ordine del 50%. Questo vantaggio di prezzo rende di nuovo appetibile per gli allevatori la possibilità di una conversione dell’allevamento al metodo biologico”.
Certo, non è tutto oro quello che luccica e non è detto che questa possa essere una ricetta valida per tutti.
Una cosa è certa: serve aggregazione a monte e a valle. A monte, per gestire la filiera degli acquisti in modo coordinato; a valle, per creare nuclei di offerta con una massa critica adeguata a trattative economicamente interessanti. E con un’immagine rafforzata e spendibile (fatta di marchio, di disciplinari di produzione interni, di informazioni su benessere e sostenibilità).
Potrebbe essere la situazione buona in cui si inverte il famoso paradigma: non sei tu industria che decidi se ritirare o no il mio latte, ma sono io produttore (o, meglio: siamo noi produttori associati) che decidiamo a chi dare il nostro latte bio.
Ci sarebbe meno spazio per i giochi delle tre carte, che penalizzano sempre chi produce.
L’opportunità c’è. Grazie a bio.