La bovina di oggi ha davvero tutta questa voglia di pascolo? Domanda non oziosa, e cercheremo di ragionare su questo.
Molto spesso tra coloro che parlano di benessere animale guardando dall’esterno l’allevamento moderno, si fa riferimento a modelli tratti da necessità comportamentali che, a loro dire, l’organizzazione della stalla da latte così come si andata definendo negli anni, non sarebbe in grado di assicurare.
E, a rinforzo della tesi, si ricordano modelli etologici su usi, costumi e abitudini della bovina.
Già, ma qui sta il punto.
Quale bovina si prende a modello per definire come gli allevatori dovrebbero allevare per essere allineati alle nuove dottrine di benessere social?
La risposta è facile.
Non è la bovina di oggi. Non è la bovina che decenni di selezione meritoria (perché, giova ricordarlo, sono alimenti che si producono e il mondo – salvo una piccola minoranza sazia e annoiata – ha più fame di cibo che di discorsi) hanno profondamente trasformato nella morfologia, nella fisiologia, nelle necessità.
Ecco perché il prendere a modello una ipotetica bovina dei sogni, che pascola felice tanti mesi all’anno, non sporca, non ingombra, non ha problemi di parassiti o di insetti, convive in armonia con i predatori che, a loro volta – sempre nell’ideale – sono evidentemente vegetariani… dicevo, prendere a modello questa bovina è fuorviante e porta a problemi grossi.
È una costruzione da combattere con argomentazioni precise, perché questo modello porta dritto alla definizione di schemi di allevamento che, per essere bollinati col timbro del benessere riconosciuto (dalla normativa, ma soprattutto dalle potenti organizzazioni sovrannazionali che su questi temi dettano la linea) dovranno essere a misura di “quella” bovina.
Da qui, ad esempio, l’insistenza su binomio bovina pascolo. Che, ci mancherebbe, è cosa eccellente in date occasioni e in certe organizzazioni di allevamento, ma non può essere preso come paradigma per tutte le stalle. Almeno non per la situazione italiana, con poca terra, tanti animali, e animali estremamente produttivi e “delicati”, stagioni sempre più estreme.
Animali assai diversi dal modello dei sogni, che, proprio per questo, hanno bisogno certamente di aree di movimento e libertà (ad esempio per l’asciutta) ma anche di stalle razionali, ambiente a ventilazione controllata, lettiere pulite, controllo delle alte temperature, alimentazione precisa.
Questo modello italiano può dare benessere, eccome, perché è più in linea con i bisogni della bovina di oggi. Ed è una posizione che va difesa in tutte le sedi, arricchita di dati e ricerche.
Altrimenti passa per inerzia – come sta avvenendo – il pensiero unico sul benessere animale, dove tutto, più o meno, si ferma al pascolo.
Grazie per il suo interessante articolo. Mi sorge però sempre una domanda: se si diminuisse il numero degli animali, portando così anche a una modalità di allevamento con più pascolo (per il benessere e soprattutto mi piace di più il termine comprensione del bovino, del suolo e probabilmente anche del clima), evitando i modelli intensivi (che con tutte le attrezzature di benessere che ci possano essere…) e ritornando ad allevamenti medio/piccoli, non crede che tutto il sistema agricolo ne possa trarre giovamento? Intendo dagli animali e alle persone in primis, a una minore offerta ma di maggiore qualità (evitando così anche tutto questo consumismo), a un prezzo del latte degno che dia il giusto valore al lavoro di un allevatore (il quale non dev’essere costretto a tirarsi il collo per stare dietro ai suoi 1000 capi). La mia è forse una visione romantica e idealista ma ovunque mi giro, soprattutto nella pianura padana, vedo solo situazioni di lascia o raddoppia e nella quale si va sempre alla ricerca di soluzioni a problemi esistenti che poi conducono solo ad altri. Non è il caso di trovare nuovi modelli di allevamento che invece di ridurre l’impatto ambientale o rimediare a qualche cosa, risolvano alla radice questi problemi? Io la risposta non ce l’ho ma penso che valga la pena trovarla. Grazie in anticipo per il suo parere. Buon anno, Alberto
Lascio aperta la sua domanda perché una risposta semplice non c’è. Ci sono tante risposte possibili, nessuna risolutiva.
È vero che le bovine stanno bene, e devono star bene nelle stalle attuali (pensiamo solo a quanti progressi sono stati fatti dai tempi di mio nonno in cui erano legate, con razioni approssimative, ecc.).Io pratico l’alpeggio su una parte delle vacche e su tutto il giovane bestiame e devo riconoscere, pur non essendo in grado di dimostrarlo, che la bovina alpeggiata torna a casa con una marcia in più. Tre mesi di sole, vento, pioggia, aria sana, erba fresca, camminate e riposo sui pascoli lasciano il segno.Non so dire, ma questo per miei limiti, se dal punto di vista economico e produttivo ci siano vantaggi ma quando vedo una vacca al pascolo mi sembra che quello sia il suo posto, del resto in pochi giorni (chiaramente quelle abituate al pascolo) si adattano perfettamente. Per il resto concordo con il fatto che dobbiamo spiegare al consumatore che purtroppo ormai ha perso ogni contatto con la realtà, che la produzione di latte al pascolo è, nella nostra realtà, una piccola produzione di nicchia ,un “frutto di stagione” e diversamente non potrebbe essere.Cordiali saluti.