Per quel che può valere, ho sempre pensato che un sistema produttivo come quello del latte abbia nella forma cooperativa la sua naturale collocazione. Il tempo e le vicende che si sono susseguite non hanno mai smentito questa mia opinione, semmai l’hanno rinforzata.
Del resto è sotto gli occhi di tutti come tra chi è inserito in un circuito cooperativo e chi conferisce latte all’industria ci sia uno iato, un solco importante.
Lo si vede anche in questi giorni: basta confrontare il tono e i termini delle lettere che arrivano alle aziende riguardo al latte in esubero, tra industriali privati e cooperative. In rete c’è tutto, inutile fare nomi e marchi.
Detto ciò, però, qualche riflessione generale, ovviamente del tutto opinabile, bisogna pur farla, perché altrimenti tuto si riduce alla logica solita “allevatore bravo, industriale cattivo“.
Perché c’è così tanto latte che è conferito all’industria, che non rientra nel circuito cooperativo? Forse perché non sempre l’operato di certe cooperative è stato impeccabile, proprio in termini di capacità di stare sul mercato.
O anche perché per certi produttori di latte vale il detto che per andare bene in un sodalizio serve un numero di soci dispari, meglio se inferiore a tre.
L’individualismo può essere premiante in certi momenti, ma strategicamente è sempre perdente per chi fa un prodotto come il latte, che richiede un ritiro giornaliero e, almeno per la parte destinata alle produzioni fresche non Dop o per il consumo, è sostituibile con quello di un altro, di qua o magari di là dal Brennero.
Sarà sempre in una posizione di debolezza verso l’acquirente, che troverà facilmente, in ogni momento, specie in quelli critici, chi è messo peggio e può accettare ciò che un altro non può fare.
A meno che il produttore si sia messo in una posizione tale da render il suo latte preferibile (per varie ragioni: ad esempio per la qualità, la sanità, la resa casearia e via così) a quello offerto altrove da parte dell’industriale. Ma qui entriamo in un altro capitolo, anche se, per chi si mette sul mercato singolarmente, non ci sono strade alternative al rendersi “attraente”, perché il rapporto è tra lui (e tanti altri) e l’industriale.
Quanto poi all’industriale (usando questo termine in senso generico per indicare la ditta privata che raccoglie il latte per lavorarlo e venderlo) ci possono essere tante sensibilità, ma non si potrà chiedergli di fare gli interessi dell’allevatore prima dei suoi.
Detta così è cruda, ma l’allevatore è un suo fornitore, non è un socio (e, anche qui, si potrebbe ragionare sull’opportunità di entrare in società industriali che lavorano il latte da parte di chi lo produce) e il legame con un fornitore non ha obblighi di fedeltà nel tempo alla scadenza del contratto di fornitura, così come in stalla si cambia il fornitore di mangime, magari dopo anni e anni di sodalizio.
Umanamente è urticante, ma ragionando in freddi termini di rapporto commerciale non fa una grinza.
Quando poi arrivano momenti come questi, la situazione diventa drammatica, perché la logica diventa quella della sopravvivenza. E la condizione di debolezza dei tanti che consegnano (e non possono smettere di produrre) rispetto ai pochi che ritirano (che in questo momento non sono in una situazione meno critica, checché se ne pensi e dica) si fa estrema.
Diversa la situazione nel mondo cooperativo, nel quale c’è una comunione di intenti e la parte industriale è una componente della produzione, non una controparte. E dove c’è spesso una elasticità maggiore anche nella possibilità di indirizzare la materia prima per reggere meglio momenti come questo. Non si è al riparo da scossoni e rischi, ma è un’altra situazione di sicuro.
Essere o non essere parte di una cooperativa è una scelta libera, imprenditoriale.
Però la storia insegna che le legioni romane erano invincibili (o quasi) quando tanti uomini marciavano e colpivano uniti a ranghi serrati. Quando i ranghi si aprivano però, e ogni legionario si ritrovava a combattere isolato dagli altri, dette legioni generalmente venivano fatte a pezzi.