Come a Pompei, quando il Vesuvio borbottava e di tanto in tanto tremavano pareti e pavimenti nelle domus patrizie come nelle spelonche della plebe; o come, prima ancora, ai tempi di Noè, quando pioveva e pioveva e qualcuno cominciava a chiedersi se quel pazzo magari proprio pazzo non fosse con la sua fissazione per l’arca. Anche ad Atlantide, tutto sommato, quel livello di acqua che saliva cominciava a far sorgere qualche apprensione, che andava oltre i piedi perennemente bagnati.
Gli esempi non mancano: ad ogni snodo della storia, quella grande come quella minuta, ci sono stati eventi che hanno cambiato totalmente lo scenario, raso al suolo civiltà, creato un prima e un dopo senza ritorno.
Per il latte è arrivato uno dei questi momenti.
Un mondo sta crollando rapidamente, e il prezzo del latte degli ultimi tempi ha reso ancora più devastanti le conseguenze di una filiera di errori fatti negli anni, che ora pesano come macigni.
La questione delle quote è la sintesi mirabile di come si possa avere il massimo del danno con il minimo dell’utile. Ma non dimentichiamo le continue guerre di logoramento tra associazioni di ogni colore, la mancanza di strategia a tutti i livelli su quale fosse l’obiettivo su cui puntare, la frammentazione della produzione e, soprattutto, della commercializzazione delle Dop più importanti, il gap tecnico tra le stalle, le mille rendite di posizione che il mondo agricolo ha sempre elargito generosamente sottraendo risorse allo sviluppo e alla crescita, la politica sciocca fatta di chiacchiere che ha creato legioni di burocrati e controllori pubblici dai lauti stipendi per applicare un groviglio di norme che nessuno riesce più a seguire. E poi le porte girevoli tra assistenza tecnica, sindacato, partiti, con vie comode di andata a ritorno. E, ancora, la formazione e l’informazione, pronte a schiacciarsi su questo o quel potentato e così restie a prendere posizioni scomode.
E poi l’orrore per l’aggregazione e la conseguente polverizzazione dell’offerta a fronte di un processo opposto da parte dell’industria. Ancora, la totale distrazione di fronte alle dinamiche del marketing e dei consumi e la fede cieca in alcune litanie – come la superiorità a prescindere della produzione italiana, la sua qualità maggiore, la sua eccellenza – senza però la benché minima capacità di dimostrare certe affermazioni con dati, ricerche, numeri.
Con questo bagaglio siamo arrivati al punto finale, al momento della svolta epocale, alla fine di un mondo: che lo si voglia o no, il dopo questa crisi sarà un’altra cosa. Sia chiaro: vale non solo per l’Italia. Ma il piano si è fatto così inclinato che il peso del nostro bagaglio zeppo di pietre sta diventando insostenibile.
Eppure anche adesso, con davanti la diga che sta cedendo rischiando di spazzare via tutto e tutti, solo pochi grilli parlanti non applaudono il potente di turno, ma mettono sul tappeto idee concrete: ad esempio su come usare il latte in esubero dei piani produttivi dei Consorzi per poterlo valorizzare con prodotti meno nobili, ma magari più graditi alle nuove generazioni; su come sviluppare un’immagine intelligente del prodotto italiano che possa fare breccia nel consumatore; sulla necessità di organizzare e unire i produttori e, soprattutto, iniziando a farlo sul serio e non a chiacchiere.
E, ancora, trovare una soluzione al problema aflatossine, vera e propria bomba a orologeria sempre pronta a esplodere e fare danni, di sostanza e di immagine.
Senza dimenticare la via obbligata, che lo si voglia o no: un’alleanza tra chi produce e chi trasforma per creare sinergie in grado di dare un futuro a chi produce latte in Italia, dove la vera eccellenza che fa breccia nel mondo è il know-how di chi trasforma e riesce a produrre cose gradevoli anche da tutto l’universo latteo di importazione.
Affermazioni opinabili, certo. Sicuramente da approfondire, ma le uniche che possono dare una prospettiva e che dovrebbero unire tutti quanti stanno su questa barca, messe da parte bandiere e convinzioni.
Altrimenti c’è la seconda via: continuare a fare come si è sempre fatto.
E cioè avanzare verso il domani con lo sguardo fisso all’ieri, ripetendo i soliti riti e le solite frasi, celebrando le solite liturgie e le solite adunate per applaudire il potente di turno, oggi come ieri, aspettando la salvezza dalla politica e dal collateralismo, come la carica del 7° Cavalleggeri che libera dai guai il convoglio di pionieri perso tra le praterie e incapace di trovare una via di uscita.
Ma il generale Custer un giorno fece tardi…