Niente da eccepire sulla necessità di difendere con le unghie e coi denti la sopravvivenza della nostra filiera da latte, con le sue stalle, la tipicità della sua produzione, la ricchezza e la varietà dei prodotti trasformati.
I numeri sulla situazione delle nostre stalle, sulle difficoltà a fare reddito, sulle difficili prospettive di molte, sulla impossibilità di continuare per alcune, sono noti.
Ben vengano anche show di piazza o di palcoscenici più nobili con tanta bella gente insieme (ministri, governatori, politici di vario conio, personaggi che piacciono alla gente che piace, sindacalisti e affini, con generose telecamere e passaggi sui tiggì) a proclamare l’indefettibile sostegno di tutti alla nostra zootecnia contro la minaccia dello straniero, sia esso latte, cagliata o formaggio.
E, ovviamente, applausi per chi agita i rischi per il consumatore legati a materia prima di incerta provenienza e opaca tracciabilità.
Chi mai potrebbe non essere d’accordo?
Ancora più d’accordo si potrebbe essere se, oltre a mettere in guardia contro il nemico straniero, si ponesse altrettanta enfasi sui tanti nemici interni che – essi pure – minano il futuro delle nostre stalle da latte.
Per dire.
Perché è così difficile per i produttori creare realtà associate che gestiscano direttamente la loro produzione, gli acquisti strategici e possano magari trattare con industria o Grande distribuzione con più peso e dignità, rispetto alla polverizzazione attuale?
Perché se abbiamo così tante Dop, eccellenze, leccornie, le nostre esportazioni alimentari nel mondo sono un bel pezzo inferiori rispetto a quelle della Germania (alzi la mano chi può dire una specialità alimentare tedesca)?
Perché altrove il mondo della produzione ha un ruolo forte anche nella parte legata alle lavorazioni industriali, mentre da noi tutto la regola è sempre stata – più o meno – quella di preoccuparsi solo di riempire il tank (che è fondamentale, sia chiaro) e non delle dinamiche legate quello che accade al di là del cancello aziendale?
Le varie organizzazioni che rappresentano agricoltori e produttori di latte, fieramente divise tra loro, sono davvero efficaci per chi vive del latte che vende (e paga tessere e stipendi) o, piuttosto, proprio con il loro numero e le loro divisioni, sono diventate esse stesse fattore di ostacolo e di freno?
Perché i costi per farmaci nelle nostre stalle sono alti ma, soprattutto, così disomogenei? Perché le vacche restano in produzione così poco? Perché così pochi produttori di latte hanno una reale conoscenza dei propri costi reali di produzione?
Questo non dovrebbe mettere in discussione anche il mondo dell’assistenza tecnica alle stalle, finanziata con soldi pubblici. Ha sempre operato negli anni con l’obiettivo di aumentare l’efficienza delle stalle, o è stata anche un comodo servizio di lancio per carriere politiche e sindacali, con percorsi in andata o di ritorno?
Perché si considerano le stalle da latte come un tutt’uno, mentre i problemi e le necessità cambiano radicalmente in base alla destinazione finale del latte?
Insomma, il latte è bianco, è vero, ma volendo approfondire un po’ le ragioni di una situazione di cronica debolezza del mondo della produzione (che a volte cede alla tentazione di vedere solo altrove i problemi, senza guardare in casa propria) ci sarebbero anche le sfumature da considerare.
Che non saranno cinquanta, come le sfumature di grigio o di nero che vanno per la maggiore, ma nemmeno sono così poche da passarci sopra come se non esistessero.