È un tema sempre più attuale, della cui importanza si stanno accorgendo un po’ tutti coloro che lavorano nel settore della produzione agricola: se non riesci a comunicare direttamente con il consumatore, a dire chi sei, cosa fai, come lo fai, perché lo fai, rischi di essere insignificante nella tua capacità di orientare i consumi.
Tanto più se, è il caso del latte, i consumi si stanno abbassando in maniera notevole, anno dopo anno.
La comunicazione (non fatta, o fatta poco e male) è il collo di bottiglia che strozza ogni sforzo fatto a monte: benessere degli animali, sanità delle stalle e dei prodotti, riduzione dei farmaci, qualità e sostenibilità lasciano al produttore solo i costi, se egli non riesce a spiegarli al consumatore, se è incapace di ridurre quella distanza che lo separa da chi mette mano agli scaffali.
Non solo. Così facendo lascia spazio a chi, numericamente ampiamente minoritario, ma mediaticamente fortissimo e estremamente motivato, semina la sua narrazione diretta a contrastare allevamento, allevatori e loro prodotti.
E lo fa, spesso, ribaltando quell’immagine di allevamento (che costituisce l’humus mentale della stragrande maggioranza del consumatori) fatta di pascoli verdi, mucche allegre, contadinelle ammiccanti, erba profumata, felicità fiabesca che, per anni – e non è certo finita – è stata il tema comune di ogni spot televisivo su tutto ciò che riguardasse il latte.
E qui arriviamo al tema.
Perché la comunicazione dell’allevamento (e degli allevatori) è stata fatta, è vero, con intenti anche lodevoli, dal mondo della produzione. Così come si possono ricordare spot ministeriali a sostegno del latte. Poca roba, in verità, cartucce di piccolo calibro incapaci di lasciare traccia.
Un po’ perché limitate nel tempo, un po’ perché bruttine, un po’ perché, in fondo, a tutto questo il mondo della produzione non ha mai creduto e ha sempre gestito la cosa come una fastidiosa seccatura.
Il grosso della comunicazione dell’allevamento, questa sì fatta bene e anche benissimo, è quella che fanno le industrie, le grandi marche.
Ed è qui che salta fuori il problema. È in questi spot, così belli, così ammiccanti, così fiabeschi, che passa l’immagine di stalla felice, totalmente irreale, che poi viene usata – come molla per rilanciare e potenziare le accuse – da chi contesta l’allevamento.
“Altro che mucca felice da cartolina”, dicono più o meno. “L’allevamento è tutt’altra cosa!”
Effettivamente lo è. Ma non nel senso che si vuol far credere.
Ma chi lo spiega? Chi lo racconta?
In verità qualche spot benemerito c’è. Cito spesso quello magistrale della Latteria Soresina (clicca qui), che mostra la stalla per quello che è – la stalla reale al posto della stalla da cartolina – e fa capire con eleganza che c’è molto benessere, molta qualità, molta salute in una stalla razionale.
Anche Granarolo ha fatto uno spot interessante (clicca qui) in tal senso, e anche McDonalds (clicca qui).
Ciò significa che la stalla reale, la stalla razionale, l’allevamento fatto bene, hanno argomenti da offrire, se sono dati in mano a chi sa come raccontarli.
Conclusione di questo ragionamento? Serve un patto tra chi produce e le grandi aziende, quelle che sanno di comunicazione e ne fanno un loro strumento di lavoro quotidiano, per raccontare l’allevamento come è nei loro spot pubblicitari.
Servono spot onesti, veritieri, che riescano a comunicare la realtà in maniera accattivante, e, così facendo, contribuiscano a creare un’immagine più aderente alla realtà della stalla razionale.
Solo le grandi aziende, i grandi marchi, hanno capacità e potenza mediatica per fare passare, insieme al nome del loro prodotto, anche una visione più corretta di allevamento e produzione.
Va chiesto nelle contrattazioni, deve diventare un elemento della trattativa.
Del resto è anche nel loro interesse: il latte, fino a prova contraria, arriva dagli allevamenti reali, non da quelli di cartapesta.