In materia di inoculi (per insilati, ma non solo) le riserve ci sono. Ci sono perché c’è chi ha provato a usarli e non ha visto risultati, c’è chi non li usa e ha prodotti ottimi, chi dice questo, chi dice quello e si è sempre punto a capo con il dubbio.
Ma è proprio così?
Sugli inoculi c’è in linea di massima un’idea molto generica, un’idea dove tutto è inserito in un grande calderone indifferenziato. Si parla di inoculi come se tutti fossero uguali, per ogni situazione, per ogni uso, per ogni coltura.
Ma questo è un po’ – per fare un esempio banale – come dire veicolo a motore e pensare che siano tutti uguali ed efficaci per ogni utilizzo.
Il che, ovviamente, non è vero. Perché in base allo scopo c’è il tipo di veicolo più adatto. Per dire: provate a salire ad una malga alpina con un’auto da corsa, oppure cercate di arrivare il più veloce possibile in un dato posto viaggiando su un’autostrada a quattro corsie con un trattore.
Tuttavia, dire ”ho provato gli inoculi e non funzionano” è come dire “ho provato ad andare al Rifugio Tal dei tali con una Ferrari e non funziona”. Il metodo è sbagliato.
Il primo passo allora è sapere – e qui entra in ballo la questione cultura – che di inoculi ce ne sono tanti, sempre più specifici e mirati per una determinata necessità, ovvero per una determinata coltura. Ci sono ceppi microbici selezionati e brevettati perché, nella miriade di microrganismi disponibili, sono in grado di fare il lavoro migliore. Ma sono anche ceppi talmente specifici che se usati nel posto sbagliato, nel tempo sbagliato, con la coltura sbagliata sono assai meno efficaci. Soldi buttati o quasi.
Ma sono però ceppi che, utilizzati come si deve, permettono di recuperare grandi quantità di energia dalla massa in trincea, che altrimenti andrebbero perse per fermentazioni indesiderate, prima e dopo l’apertura.
È come se si coltivasse un certo numero di ettari, con spese in proporzione, ma praticamente, alla bocca della bovina, arrivasse nutrimento come se quegli ettari fossero un po’ meno, perché una parte della produzione è andata persa.
E non è solo questione di indirizzo e stabilizzazione delle fermentazioni. Bisogna considerare anche l’azione di determinati enzimi che i prodotti più perfezionati immettono nella massa, con il conseguente miglioramento della digeribilità, ad esempio della fibra.
Ribaltando l’esempio di prima, è come se si coltivasse un certo numero di ettari, con spese in proporzione, ma praticamente, alla bocca della bovina, arrivasse nutrimento come se quegli ettari fossero un po’ di più, perché una parte della fibra indigeribile che andrebbe a finire nella fossa viene recuperata.
E tutto questo non è solo una faccenda per insilati. Pochi ne fanno uso, ma ci sono inoculi specifici per la fienagione, che consentono di imballare più presto, con più umidità, più foglie sulla pianta, temperature più basse di fermentazione, fieno finale più colorato, nutriente, appetibile, sano.
Ci sono alcuni punti fermi nella zootecnia che ci aspetta: bisognerà produrre più foraggi con la stessa terra e nella maniera più “ecologica” e sostenibile possibile. Ridurre al minimo le perdite di ciò che si è prodotto è un bel passo nella direzione giusta.
Una cosa però non va mai dimenticata: il fai da te, le prove casarecce di questo o quello possono essere un danno notevole, di quantità e di sanità del prodotto finale.
Se si vuole far le cose bene bisogna conoscere ogni passaggio: valutare, conoscere, farsi consigliare da un tecnico.
Dandogli fiducia la prima volta, chiedendogli poi conto però se le cose non sono andate come promesso. Se accetta la sfida sarà un venditore serio, altrimenti meglio lasciar perdere.
e aggiungerei che il primo passo è prendersi un attimo di tempo ed inforcare gli occhiali per leggere e confrontare tra loro il contenuto di buste, bustine e bottigliette. un lavoro non semplice ma di grande importanza.