Lo so, vi sembrerà strano. Eppure seguitemi nel ragionamento e vedrete che forse la ragione sta dalla mia parte.
Dapprima, però, una premessa doverosa.
Il 2018 sarà l’anno nazionale del cibo italiano. Lo hanno proclamato i Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali e dei beni culturali e del turismo. Da gennaio prenderanno il via manifestazioni, iniziative, eventi legati alla cultura e alla tradizione enogastronomica dell’Italia.
Bene, bravi, bis.
Ora, procediamo.
Che il made in Italy agroalimentare sia una cosa che non ha eguali nel mondo è cosa risaputa: tutti lo imitano, tutti lo cercano, ma solo noi italiani riusciamo nell’impresa.
E, si noti, l’export va bene, anche benissimo in certi semestri, con tonnellaggi sempre maggiori di prodotti Dop e Igp in direzione dei quattro punti cardinali dell’orbe terraqueo, via terra, via mare, via cielo.
E, giustamente, tutti coloro che hanno il dovere di apparire sui giornali, per carica politica o sindacale, ne menano gran vanto.
Non c’è discorso, omelia, sermone o taglio di nastro nel quale non si esaltino i numeri del made in Italy agroalimentare.
Ora, veniamo a noi.
Molti hanno dato delle risposte alla domanda sul perché i prodotti del nostro sistema agroalimentare siano così speciali. Chi dice la terra, chi dice il clima, chi dice l’aria, chi la tradizione, chi la cultura, chi tutto quanto insieme.
Vero, ma forse c’è di più.
Un segreto custodito con cura, gelosamente trattenuto, mai detto e mai sussurrato, perché se si venisse a sapere oltre confine addio unicità del made in Italy, addio tagli di nastri, addio manifestazioni e flash di fotografi.
Quale è il segreto?
Suvvia, seguite la cronaca o no?
È il fattore “D”, ossia diossina. Dico diossina per semplificare, certo non per fare un torto ai mille composti organici dalle molecole fiorite come cristalli di neve che si sviluppano da un incendio di rifiuti, meglio se con tanto materiale plastico, vecchi copertoni d’auto e tutto quel ben di dio che si può trovare in uno stoccaggio abusivo di rifiuti che prende fuoco.
Perché, fateci caso: questi depositi bruciano qua e là sul territorio italiano – proprio quella terra e quell’acqua da cui prende vita e forma il made in Italy agroalimentare – con una cadenza e regolarità tali da non fare mai venire meno l’apporto di diossina e compagnia.
E non pensate che sia una cosa semplice, per improvvisati: bisogna trovare capannoni, fare un sacco di viaggi con camion pieni di rifiuti, stoccarli all’inverosimile e poi dare fuoco.
Un lavoraccio, certo, ma solo così, con una attenta gestione del territorio – oggi qui, tra qualche settimana da un’altra parte, e poi da un’altra parte ancora – si riesce a garantire una copertura costante e precisa dei carichi di diossina che, attraverso l’aria, l’acqua e il suolo arricchiranno discretamente le nostre eccellenze agroalimentari.
Per dire: nella sola provincia di Pavia, nel giro di pochi mesi, c’è stata una sequenza di incendi a carico di stoccaggi di rifiuti grazie alla quale non è mai venuta meno la quantità di diossina prescritta per il territorio circostante.
Ma questo non è un privilegio della Lombardia, sia chiaro: vale per tutta Italia, sopra e sotto terra.
Ora, provate a immaginare se si diffondesse la voce che è grazie a questo che il made in Italy ha quel non so che di unico: tutti quanti all’estero si precipiterebbero a bruciare plastica e copertoni. E, invece, noi zitti: mica siamo scemi, il segreto del sapore ce lo teniamo bello stretto.
Per dire: dopo ogni rogo, vedendo la quantità di figure istituzionali con funzioni di vigilanza e controllo che si materializzano sul posto, qualche babbeo si è chiesto se non sia possibile che queste figure facciano qualche cosa di più anche “prima” che questi incendi avvengano con la regolarità di un orologio svizzero.
Cielo, con che anime semplici abbiamo a che fare.
È ovvio: senza diossina addio made in Italy, addio esportazioni, addio Pil, è evidente!
Certo, se voi provate a bruciare qualche cosa nella vostra cascina e vi arriva l’ispettore di questo o quell’ente dei millemila preposti alla verbalizzazione, egli vi fa un culo a capanna. E, nella vostra ingenuità, sostenete trattarsi di ingiustizia e imprecate usando titoli e aggettivi sgradevoli all’indirizzo della di lui madre, sorella e financo moglie.
Vedete che siete proprio tonti? È chiaro che col vostro focherello ridicolo intralciate la pianificazione di una giusta dose di diossina sul territorio, cosa che richiede stoccaggi pieni di rifiuti e incendi come si deve in tempi e modi certi, regolari, continui, mica cosette infantili.
Messo in chiaro tutto questo, e cioè che senza diossina evidentemente non c’è il vero made in Italy, mi chiedo come mai nella Fabbrica Italiana Contadina, altrimenti chiamata FiCO, non sia stata prevista un’area appositamente attrezzata, in miniatura, con un piccolo capannone che viene riempito di vari rifiuti di origine, composizione e provenienza ignote e che a orari prestabiliti prende fuoco, mostrando la bella nuvola nera che irrora gioiosamente la sua diossina qua e là, permettendo al made in Italy agroalimentare di acquisire la sua unicità.
A volere essere perfezionisti – sempre a scopo didattico, ovvio – non guasterebbe anche qualche fusto arrugginito con vistosi percolamenti, seppellito in qualche punto del terreno dimostrativo, possibilmente in prossimità di falda.
Comunque si è già fatto tanto e manca poco per raggiungere l’eccellenza. Immaginate, ad esempio, che figata sarebbe arricchire tutto il made in Italy con una filiera ad hoc a diossina garantita e certificata: bio, no ogm e vegan friendly.