Signori, non ci siamo. Il latte che circola nel mondo è ancora tanto, tantissimo. E non si vedono segnali incoraggianti sul versante della quantità. Anzi. Le quotazioni delle commodity lattiero-casearie sono in calo e questo segnala indiscutibilmente un dato: di latte a disposizione di chi compra ce n’è più di quanto serva.
Così i prezzi sono quelli sono e il 2016 iniziato male rischia di procedere peggio.
In questo scenario da lacrime e sangue si tratterà tra produttori e industria ed è chiaro chi, al di là di ogni considerazione su dove stiano le ragioni e dove i torti, tiene il coltello dalla parte del manico.
Esatto, chi produce latte – come molti altri la cui forza è la sola proposta di una materia prima in una situazione di eccedenza – può solo urlare, imprecare, sperare e poi accettare.
Certo, così non sarebbe (o, almeno, non con questa durezza) se chi produce latte avesse in passato lavorato per prepararsi una via di fuga nell’ipotesi di catastrofe. Come le mappe in caso di incendio, che spiegano esattamente cosa fare e dove andare in emergenza.
Sarò ripetitivo e banale (sono doti naturali, non me ne vanto), ma le difficoltà (tante, d’accordo) del fare latte in Italia non devono fare dimenticare che solo l’Italia ha una capacità di dare al latte un valore aggiunto così alto. Il problema è che non si è lavorato efficacemente per far rendere di più questo talento (facendo in modo che i margini scivolassero sempre di più verso altri segmenti della filiera).
Come? Rinnovando, unificando, snellendo, ammodernando la grande “fabbrica del latte” italiana.
Non tanto a livello di stalla (ma anche qui ci sono sacche di inefficienza che sono sale sulle ferite di un prezzo del latte così basso) quanto di organizzazione del sistema e di sua capacità di darsi una governance univoca capace di leggere i segni dei tempi e mettere in moto qualche meccanismo di adattamento.
Nei convegni la famosa frase di Darwin che sopravvive solo l’organismo in grado di adattarsi, non necessariamente il più forte, la si ripete all’infinito, ma la dura realtà è che il sistema latte italiano, con le sue divisioni e le sue debolezze, è un organismo bloccato e non riesce a mettere in atto mutazioni che, fatti salvi esempi di buona volontà, facciano vedere un’evoluzione in corso.
Il rischio è che, usciti malconci da questa crisi, quando finirà, saremo perfettamente pronti a schiantarci alla prossima.