Quando si parla di Global warming, come per qualunque argomento complesso, la tendenza è quella di scegliere scorciatoie facili e indicare con sicurezza assoluta colpevoli e innocenti.
Quando poi la faccenda da complessa diventa anche ideologica, la cosa è ancora più evidente.
E non fatevi illusioni: un colpevole a cui gettare addosso la croce del riscaldamento globale c’è. Anzi, sempre più chiaramente, viene additato come “il” colpevole: l’allevamento.
Andremmo fuori tema se parlassimo di convergenza tra una certa religione verde che si sta affermando, intollerante e con una Inquisizione efficientissima nel predisporre righi mediatici, e il vecchio mondo dell’animalismo militante, del veganesimo, del no a prescindere a ogni forma di allevamento. Però è quello che sta accadendo, Greta docet: se vuoi salvare la terra dall’arrostimento smetti di mangiare carne (e bere latte, già che ci sei).
Quindi, quando si chiede di dimezzare il patrimonio animale presente in un dato Paese (ad esempio in Olanda) lo si fa con le più nobili delle motivazioni: difenderci dal Global warming.
Ora, è chiaro che il caldo aumenta e la terra ha la febbre, ma davvero basta dimezzare gli animali allevati, o magari anche di più, per rimettere in carreggiata le cose?
Se guardate “Cowspiracy” su Netflix la risposta che avrete è: sì, sicuramente. La Cina? L’India? Che bruciano combustibili fossili come se non ci fosse un domani? Nossignori, la colpa e solo delle vacche. Vacche che, scusate il francesismo ma è quello che sentirete dire più volte nel documentario inchiesta su Netlix, scoreggiano metano, un vero killer del clima per il suo effetto serra.
Non stiamo a di dilungarci sul fatto che l’uscita del metano dalle vacche avviene in altro modo e da altra apertura, e andiamo in Nuova Zelanda.
Guardatevi questo cartone del New Zealand Pastural Farming Climate Research Inc, che sintetizza concetti che poi troverete ben più sviluppati sul sito.
Quali concetti?
Che forse la questione del metano emesso dai ruminanti è un problema sopravvalutato. Anzi, nasconde un errore concettuale macroscopico: equiparare il metano emesso dai bovini, o, meglio, il suo equivalente in CO2, alla CO2 emessa come conseguenza dell’utilizzo di combustibili fossili.
Detta in minimi termini, la questione è questa. Il metano prodotto dai ruminanti in atmosfera è un quantitativo relativamente costante, perché quello che viene emesso dai ruminanti è compensato da quella quota di metano che, ossidatosi in CO2, viene intrappolato negli alimenti che il ruminante assume, nelle sue carni, ossa, tessuti. Verrà poi rilasciato, ma all’interno di un ciclo costante.
Non genera nuova CO2. Ma semplicemente sarebbe una partita di giro.
Diverso il caso del carbonio che deriva dall’utilizzo di combustibili fossili: quello è carbonio rimesso in circolo dalla notte dei tempi, nuova CO2 immessa in atmosfera, che si somma continuamente.
Tuttavia – è l’accusa del documento – i decisori politici, spalleggiati da organizzazioni transnazionali, media, attivisti vari, fanno di tutta l’erba un fascio: considerano il metano emesso dai ruminanti, lo trasformano in C02 equivalente (moltiplicando per 25), e da qui fanno derivare lo spropositato effetto dell’allevamento sul riscaldamento globale.
Mentre il realtà, dato che la quota di metano emessa dai ruminanti è inserita in un circolo continuo di dare e avere, con una quota che è emessa, ma una quota che è sottratta, l’equivalente in CO2 che si ottiene non è reale, quanto effetto riscaldante, ma virtuale.
Ossia, se anche dimezzassimo con un colpo di bacchetta magica i ruminanti presenti sulla terra, non cambierebbe nulla, perché si eliminerebbe solo della CO2 virtuale.
Ora, la questione è complessa e non sono un esperto. Ed innegabile che il settore debba fare la sua parte in materia di sostenibilità ed eticità, anche per la questione climatica. Però la cosa è intrigante. Buona visione e ognuno tragga le sue conclusioni.
PS: Grazie a Chiara Dordoni, allevatrice di lattifere, per la segnalazione.