La sostenibilità, la decrescita, i nuovi orizzonti green dove gli alimenti ci sono come per incanto sugli scaffali dei supermercati, indipendentemente da chi li produce, dai costi che sostiene, dalle mille difficoltà che gli vengono poste.
E, ancora: pensare che il cuore del problema sia il benessere animale, sia la circolarità amorosa, sia puntare all’ultrabiologico che più biologico non si può, fa niente se poco.
E poi il rispetto sempre e comunque della fauna selvatica, il povero lupo, il povero cinghiale, la povera nutria… tutti con la precedenza assoluta riguardo a chi alleva e a chi coltiva.
E basta con i concimi chimici, basta coi diserbanti, basta con tutto.
Continuiamo?
Continuiamo: agricoltura che è solo un sistema di gestione ambientale, di tutela di fiorellini e uccelletti, dove si premia chi sbaracca e si ostacola – o criminalizza – chi si ostina a vedere la terra come una risorsa da far fruttare per dare lavoro e cibo.
Poi succede che la realtà oscena della guerra torna improvvisa e coinvolge in pieno anche il mondo delle derrate agricole, visto che coinvolge due tra i maggiori esportatori di cereali.
E si comincia a fare due conti e capire – qualcuno in verità avrebbe potuto farlo anche prima, ma era così bello baloccarsi tra un seminario e l’altro – che il green va bene, il green deal ancora meglio, se poi è un new green deal si gode come ricci ma… gli scaffali (e le pance) si riempiono in primis con quel che si produce e quello che si importa.
Se l’idea dominante è quella di produrre sempre meno e importare sempre di più, illudendosi che la realtà non suoni il campanello, poi con la realtà si devono fare i conti.
Bravo