La quantità crescente è arrivata al capolinea.
Difficile pensarla diversamente, vedendo la situazione attuale e le prospettive dell’immediato.
Primo indizio: di latte ce n’è tanto in giro per il mondo, ce ne è tanto in Europa ed è difficile pensare che in poco tempo le cose cambino di chissà quanto.
Secondo indizio: i consumi non decollano, anzi: la crescita moderata negli acquisti alimentare segnalata in questi giorni dall’Istat mostra un segno meno preoccupante. Riguarda proprio il consumo di latte e derivati vari, con la sola eccezione dello yogurt. Quindi, inutile aspettarsi salvagenti dal consumatore.
Terzo indizio: per le due ragioni dette le aziende di lavorazione e trasformazione del latte si ritrovano da un lato quantità crescenti di materia prima a disposizione, dall’altro consumatori riluttanti sul latticino. Che fanno? Ovviamente il loro interesse, come i recenti fatti dimostrano al di là di ogni dubbio. Sono aziende che devono fare reddito, non la San Vincenzo. Rispondono agli azionisti, certo non agli allevatori.
Così cercano di ridurre la quantità di latte che gli viene consegnata pagando un premio ai conferenti che si impegnano a far rientrare la produzione di latte alla soglia dell’era quote (come Arla), segnalano ai conferenti che ritireranno un quantitativo definito e certo, come sta avvenendo in Italia. Oppure, semplicemente, smettono di ritirare.
Una linea di azione che attira sempre di più anche a livello politico e istituzionale: contributi per il latte in meno fatto.
Dunque, non facciamoci illusioni: la quantità definita di materia prima consegnata a un’industria di trasformazione, definita da un contratto, sarà una condizione normale tra non molto. Un’industria che produce scarpe, per fare un esempio, non si sogna minimamente di ritirare tutta la quantità di pellame che dei suoi ipotetici fornitori sono in grado di fornirle. Al contrario contrattualizza determinate quantità in funzione della sua pianificazione produttiva.
Ciò significa che l’orizzonta decisionale di una stalla da latte tornerà ad acquisire un vecchio elemento di rigidità: la quantità di latte massima producibile in un anno. Le vecchie quote, uscite dalla porta senza lasciare in mano a chi le possedeva un solo centesimo del loro valore, rientrano dalla finestra.
A meno che si trovino altri sbocchi additivi per il latte in più prodotto.
Da qui la considerazione che la quantità sta diventando sempre più un’arma spuntata, se spinta all’estremo. Anzi, dannosa per i conti della stalla.
Fare tanto latte è importante, farne tantissimo potrebbe non esserlo più, perché il costo sostenuto non verrebbe minimamente ripagato. Se per fare tantissimo latte si perdono di vista altre leve che, in tempi di quantità producibili definite, possono dare integrazioni alla redditività, si va a sbattere.
Dunque, servono i titoli (meglio se “personalizzati” sulle esigenze di un potenziale acquirente); serve la produzione di carne (con i vitelli o le vacche a fine carriera); servono bassi costi di gestione; serve il risparmio su farmaci e spese veterinarie.
E serve sì la massima produzione, ma solo per arrivare alla propria “quota” con meno vacche in stalla.