Ci salverà – si dice – l’eccellenza del made in Italy agroalimentare, le esportazioni in aumento, le strategie di penetrazione sempre più efficaci dei mercati internazionali.
Giusto.
Ma poco si evidenzia un elemento assolutamente critico che si intreccia a tutto ciò: si allarga il gap tra volumi di prodotto agroalimentare italiano e l’autosufficienza per le materie prime utilizzate.
Se la prima voce è promettente, la nota dolente arriva dalla seconda, in costante peggioramento. Non è una questione di poco conto: come è possibile battere intensamente il tasto della tipicità italiana se dietro questa facciata c’è una realtà fatta di ricorsi massicci e crescenti a importazioni di materia prima?
Sui proteici è nota la situazione, con un gruppetto di Paesi che controllano di fatto quantità e commercio di soia nel mondo. Ma la situazione, in Italia, è critica anche per il mais.
Nel corso degli ultimi anni, il grado di autosufficienza nella produzione nazionale, quasi totale fino ai primi anni 2000, è diminuito costantemente, con cali del 3% annuo, rendendo necessaria l’importazione in Italia di circa il 50% del mais necessario.
Questa costante diminuzione del grado di autosufficienza è fotografato dal corrispettivo ritardo nella crescita delle rese che l’Italia ha fatto segnare rispetto ad altri Paesi. Negli ultimi 25 anni, infatti, la produzione di granella in Usa è cresciuta del 40%, in Francia del 50%, in Spagna del 60% mentre in Italia l’incremento è stato del 18%.
Una situazione che fa riflettere, dato che il mais è la base su cui poggia la nostra produzione di punta: formaggi, salumi, prosciutti… Tutto quello, insomma, che fa volumi e fatturati.
Come si può immaginare di coniugare tipicità italiana (e, anzi, giustamente combattere in ogni sede perché questa sia riconoscibile) e aumento dei volumi prodotti e venduti se sempre di più si deve importare dall’estero la “benzina” con cui viaggia la macchina del made in Italy agroalimentare?
E, ancora: quanto tempo passerà prima che qualcuno – magari qualche produttore dei vari prodotti di imitazione – voglia saperne di più su una supposta peculiarità tricolore, nutrita però (nel vero senso della parola) con commodity generiche, provenienti dai grandi produttori mondiali?
Per esportare più Dop bisogna aggredire i mercati e conquistare una trincea dopo l’altra. Ma nelle retroguardie serve più latte prodotto, servono più animali allevati. E serve più mais.
Se al poker della comunicazione si punta tutto sul legame col territorio come cifra distintiva delle nostre eccellenze, non si può poi evitare che qualcuno voglia vedere le carte.
Molto interesssante, infatti credo che bisognerebbe rivedere tutta la filiera delle DOP, recuperando l’origine. Perchè un tedesco non potrebbe afre il Parmigiano? Al di là delle normative, ci sono reali impedimenti al fatto che lo potrebbe fare? No. Basta che utilizzi le stesse fonti e si prenda un bravo casaro. Ma se invece io lego il prodotto a condizioni di alimentazione specifiche ed uniche del terriotrio, la musica cambia. Perchè la bresaola IGP è fatta con carni sudamericane?