Anche la Fao in un recente rapporto è intervenuta sul problema delle resistenze batteriche, a conferma che:
a – questo è davvero un problema;
b – coinvolge tutti e, in maniera diretta, il mondo delle produzioni animali.
In particolare si può scommetterci che entro breve tempo si dovrà dire addio all’uso degli antibiotici per uso profilattico, principalmente attraverso mangimi medicati.
È proprio attraverso questa via, infatti, che sono distribuiti in mangiatoia e assorbiti dagli animali antibiotici in quantità non definibili con esattezza in ogni singolo capo, quantità facilmente subletali per la variegata compagnia microbica pronta ad attrezzarsi alla bisogna, sviluppando resistenze.
È quindi vero che il problema interessa solo marginalmente l’allevamento bovino da latte, che essendo un ruminante (se escludiamo la fase di vitello lattante) non può certo essere immaginato come un utilizzatore di antibiotici per via alimentare, a meno di voler sterminare le popolazioni ruminali.
Infatti più del 90% delle preparazioni antibiotiche vendute sono per maiali, polli e animali da compagnia e quindi l’allevamento bovino non è al centro del problema del consumo di antibiotico.
Tuttavia – e qui sta il punto dolente – le molecole d’elezione utilizzate per le bovine sono cefalosporine e fluorchinoloni e sono quelle più in competizione con l’utilizzo in farmacologia umana e sono considerate estremamente importanti per la sanità umana, la cui efficacia è da preservare in ogni modo.
Insomma, non si può pensare che il problema delle resistenze batteriche non tocchi anche l’allevamento da latte. Non è tanto un problema quantitativo, ma qualitativo, ma comunque il problema c’è.
Pensare a modalità di gestione, stabulazione, alimentazione, selezione che minimizzino i problemi sanitari in stalla non è un optional, ma un obbligo. E non è detto che ci si rimetta nei conti, anzi.