Come segnala una nota di Confagricoltura diffusa oggi nelle redazioni dei giornali, “nel 2014, secondo le stime previsionali pubblicate da Eurostat, il reddito agricolo italiano per addetto è sceso dell’11%, tornando a registrare, sia pure di 0,8 punti percentuali, un valore inferiore a quello del 2005 (indice di riferimento = 100), dopo il positivo risultato del 2013 (+11,4%). Nel periodo 2006-2014, tutti gli anni, escluso appunto il 2013, hanno evidenziato, per l’Italia, valori inferiori al 2005, con minimo nel 2010 quando il decremento di reddito, rispetto all’anno di riferimento, è stato addirittura del 16,9%.
Tra i principali Paesi agricoli della Ue, il Regno Unito è il paese in cui il reddito del settore primario, nel 2014 rispetto al 2013, è cresciuto maggiormente (+6,9%), seguito da Grecia (+4,4%), Francia (+1,1%) e Germania (+0,2%). Oltre l’Italia, solo la Spagna è andata “sotto” (-4,6%). I risultati migliori rispetto al 2005 sono di Germania (+63,6%) e Regno Unito (+56,5%) Nel periodo 2006-2014, solo Regno Unito e Germania hanno sempre registrato redditi superiori al 2005. L’Italia ha il record degli anni con reddito inferiore all’anno di riferimento (il 2005): otto volte. Segue la Spagna con quattro volte, la Grecia (nel 2006) e Francia (nel 2009). È evidente – sottolinea la nota di Confagricoltura – come i redditi degli agricoltori italiani, nei diversi anni, si siano allontanati significativamente dalla media. Fa eccezione solo il 2009 quando la distanza negativa è stata relativamente più contenuta: -7,2% rispetto all’Ue dei 28 Paesi che ne fanno parte attualmente; -3,8% rispetto all’Ue dei 15 Paesi che ne facevano parte nel 2005. Nel 2014, tale distanza è stata, rispettivamente del 26,2% (Ue-28) e del 16,4% (Ue-15).
Fin qui numeri e percentuali.
Ora, dato che come si dice sempre, siamo nel pieno di un mercato globalizzato, che fa nuotare tutti nello stesso mare, è evidente che il problema va cercato a monte. E tra i punti critici non può che essere messa la burocrazia, nel caso in questione quella applicata al settore agricolo.
Purtroppo è una burocrazia pletorica, stratificata su tanti livelli con grandi difficoltà di comunicazione, spesso autoreferenziale, che solo in rarissimi casi mantiene un minimo di capacità di offrire stimoli positivi alla crescita del settore.
Addirittura, sempre più spesso, si configura come un’entità dannosa, che fa da freno. I ritardi sui Psr di varie Regioni parlano da soli e non sono certo un caso isolato. Ma nessuno paga dazio, ovviamente. La casta burocratica mantiene inalterate le sue entrate senza alcun rischio, che si tratti di anni grassi o anni magri e senza alcun nesso con la qualità lavoro svolto.
Che si potrebbe misurare – giusto per avere un parametro – anche con i redditi di chi produce. E che, ragionando ovviamente in astratto, dovrebbe essere l’oggetto del servizio delle coorti burocratiche di vario genere che regolano, controllano e gestiscono il settore primario (a proposito: i migliori in questa classifica sono Regno Unito e Germania: davvero la qualità/quantità della massa burocratica non fa la differenza?)
Certo, poi ognuno ha gioco facile nel dare la colpa a questo o quello (le Regioni allo Stato, lo Stato alle Regioni, e via così scaricando) ma la sostanza non cambia: il reddito della burocrazia negli anni non è minimamente calato, quello degli agricoltori sì.
Giusto per scrupolo, sarebbe bello ragionare anche sull’andamento delle retribuzioni di tutta quella burocrazia di stampo sindacale e variamente associazionistico in questi anni, per vedere se ha accompagnato, “nella buona e nella cattiva sorte”, quella dei suoi rappresentati e associati o se magari si è accontentata di tenerla d’occhio da lontano. Eppure – sempre ragionando per astratto, come se non fossimo in Italia – un calo di redditi del genere dovrebbe mettere un po’ in discussione anche chi di lavoro rappresenta il lavoro degli altri.