Un po’ come quei sentieri che in montagna si inerpicano su su verso la roccia nuda e non sai se sia più pericoloso guardare da una parte, dove si spalancano crepacci da paura, o dall’altra, con speroni aguzzi che a ogni distrazione di scorticano gambe e gomiti.
Il percorso dell’antibiotic free è un po’ così: infido, pericoloso, con pochi vantaggi e tanti rischi per chi produce. Rischi, soprattutto, di fare passare messaggi opposti a quello che si vorrebbe ottenere.
Cominciamo dallo sgombrare il campo da ogni dubbio: è ovvio che tutto il latte prodotto è antibiotic free, ossia senza antibiotici. I prodotti utilizzati e i tempi di sospensione rispettati sono una garanzia certa. E non solo per il latte.
Tuttavia la questione non è questa. Non è che nel latte ci siano o non ci siano residui. La questione è che un filone di marketing sempre più robusto nel campo dell’agroalimentare, e più specificatamente negli alimenti di origine animale, è quello che, partendo dalla definizione ripetuta allo sfinimento “antibiotici no buuuuono – zero antibiotici buuuuono”, è passato al passo successivo: proporre linee dove si assicura il consumatore chel’antibiotico non solo non è presente come residuo (e ci mancherebbe) ma anche non è stato utilizzato nel ciclo di produzione o in una determinata parte di esso.
Ora, si può discutere finché si vuole sulla correttezza della criminalizzazione senza se e senza ma dell’antibiotico, ma ormai la frittata, diciamo così, è fatta. Il messaggio è passato ed è stato fatto proprio dalla massa consumatrice, che poco o nulla sa, ma assorbe concetti semplici, ripetuti e ben confezionati.
Veri? Non necessariamente. O, meglio, talmente semplificati ed elementari da fare cadere le braccia a chi volesse impostare un dibattito su fatti e numeri. Però verosimili, e quindi di facile presa.
Ovviamente il mondo della produzione, anche qui come in millemila casi analoghi, ha brillato per inerzia, incapace totalmente di controbattere unito e coeso sul fronte della comunicazione, da sempre sganciato da un rapporto efficace col consumatore finale e costantemente a traino, per queste incombenze ritenute superflue, della comunicazione fatta dalla Distribuzione o dall’Industria.
Adesso che il “genio” dell’antibiotic free è fuori dalla lampada, è assai difficile ricacciarlo dentro e, prima o poi, andrà a interessare anche chi produce latte.
Semplicemente perché la distribuzione, e quindi l’industria, lo chiederanno. O perché certi colossi dell’online, tipo Amazon per dire, allargheranno la loro presenza agli alimenti, al fresco, al latte e derivati, magari gestendo direttamente allevamenti che produrranno per loro. E lo faranno sicuramente con tutte le bandierine al loro posto, compresa quella dell’antobiotic free. Stabilendo così uno standard di riferimento per tutti, volenti o nolenti.
Come sempre, quando l’asticella si alza, c’è una fase di avvicinamento, nella quale chi offre in anticipo quanto richiesto può pensare di ricavare un premio. Poi diventa un obbligo e un pre-requisito.
Certo, questi sono discorsi futuribili. Certo non è un problema per l’oggi o per il domani. Ma la questione ha un impatto tale sulle modalità di gestione aziendale, sulle scelte di selezione e su quelle sanitarie, sulla stessa sopravvivenza economica, che necessita di tempi lunghi per organizzare una qualsivoglia riconversione.
Che, detto per inciso, non potrebbe che avere effetti positivi su tutto il resto: allevare puntando alla massima sanità (un obbligo, non più una scelta) significa creare le condizioni migliori possibili di vita per gli animali, che sono anche quelle in cui si ha la massima resa.
Ovviamente resta il capitolo triste riguardo alla capacità (o, meglio, alla non capacità) del settore di comunicare in maniera coesa ed efficace con il consumatore, meglio se a partire da fatti concreti, passi intrapresi, percorsi certi anche sul fronte antibiotici.
Ma su questo l’esperienza del passato insegna: inutile farsi troppe illusioni.

