Decisamente è un momento di grande fervore per quanto riguarda la selezione.
Il fermento non riguarda soltanto le vicende legate alle organizzazioni e alle strutture (e ogni riferimento alle vicende recenti non è involontario e non è casuale) e alla scrollata che tutto il settore inevitabilmente ne riceverà.
No, mi riferivo agli indici di selezione.
Sono diventati i grandi protagonisti.
Non che non lo fossero già prima, intendiamoci, ma ora sta delineandosi con chiarezza una corsa alla differenziazione, una messa a punto di strumenti sempre più specializzati, mirati, cuciti su misura su un modello di vacca.
Che non è più “la vacca da latte” ma un ben preciso tipo di vacca da latte, che ne affianchi un altro, e un altro ancora, in base alle esigenze.
Si prende atto, finalmente, che non esiste una zootecnia da latte, ma tante zootecnie da latte: quelle che fanno latte da consumo e quelle che fanno formaggi, per cominciare, tralasciando per brevità la differenziazioni anche all’interno di questi pianeti.
Differenze di sbocco che chiedono differenze di selezione, perché quello che è ottimo da una parte non lo è dall’altra e viceversa.
Ma ci sono altri fattori che spingono.
La zootecnica da latte (e in genere tutto il settore delle produzioni animali) deve fare i conti con tutto ciò che sono le nuove, stringenti richieste del combinato congiunto dato dal consumatore-gruppi di pressione animalisti-legislatore.
Che piaccia o no, sostenibilità ambientale, riduzione del consumo di risorse, emissioni, benessere animale, ridotto consumo di farmaci sono questioni ormai non negoziabili a cui chi alleva si o si adatta (e lo dimostra) o rischia di restare fuori dai giochi nel prossimo decennio.
Bene, e torniamo agli indici.
Avere a disposizione già ora, e ancora di più nell’immediato futuro, indici sempre più raffinati e mirati sulle coordinate viste sopra è, e sarà, di grande aiuto, indubbiamente.
Tuttavia la questione base resta inalterata: l’allevamento, e soprattutto l’allevamento da latte, è un’attività che richiede l’armonia di tanti fattori.
Ovviamente c’è la parte di selezione, ma anche tantissimo altro, che ha dei tempi di progresso molto più rapidi di quelli – inevitabilmente – che può dare la selezione medesima.
Un esempio banale: si può avere l’indice più perfezionato che si vuole sull’attitudine alla trasformazione del foraggio, ma se poi quello che si fa in campagna non è eccellente e quanto si porta in azienda è un foraggio mediocre, nemmeno il migliore indice di selezione del mondo potrà fare miracoli.
Si può allargare il tiro su sanità, benessere e altro ancora: ottimo lavorare per migliorare le bovine dal principio su questi filoni, ma quello che si può fare in stalla, da subito e con tempi rapidi nei risultati, è talmente tanto (in termini di spazi, di microclima, di gestione dei gruppi, di lettiere, di piani vaccinali mirati, di igiene e biosicurezza) da rendere i frutti della selezione e, nello specifico, indici sempre più mirati e puntuali, la ciliegina sulla torta.
Che ovviamente è fondamentale, ma se sotto non c’è la torta non si sa dove appoggiarla.
Perché – e chiudo – va bene l’indice: ma se pensiamo all’azienda da latte come fosse una mano, per afferrare risultati, redditività e nuova accettabilità sociale ha bisogno comunque anche di tutte le altre dita. Con il solo indice si afferra ben poco.

