Benessere animale: così vago da definire, così facile da interpretare, così difficile da raccontare, così esposto a fraintendimenti e manipolazioni.
O, meglio.
Il benessere animale per come è diventato ora, ossia un brand da apporre a qualsivoglia prodotto di origine animale per cercare di rendere la sua immagine verso il consumatore più attraente e accattivante.
Ma facciamo un paso indietro.
Anni fa, nemmeno troppi, di benessere animale non ne parlava nessuno o quasi. Certo le priorità erano altre, c’erano problemi più urgenti da affrontare o, giusto per ricordarne un paio da niente tipo quote latte o nitrati, l’imperativo per molti a tutti i livelli era spesso solo di essere un po’ più furbi degli altri.
E così nessuno pensava al benessere animale o, meglio, alla possibilità di codificarlo, definirlo, dargli una dimensione proponibile, valutabile, verificabile e “vendibile”.
Per il mondo degli allevatori un’occasione persa per costruire qualcosa anticipando i tempi (costruendo un protocollo, un logo, un processo di verifica, una filiera di controllori e tutto ciò che serve, e che è stato fatto poi) e farsi trovare poi pronti, chiavi in mano, quando il giocattolo sarebbe improvvisamente diventato il pezzo più richiesto sullo scaffale.
Sarebbe stato un bell’accessorio in più da spendere a ogni trattativa, un’occasione per aggiungere valore, anticipando l’evento piuttosto che subirlo perché imposto – volenti o nolenti – con la sensazione dell’ennesimo aggravio di richieste a un mondo già tartassato.
Tuttavia, dato che niente si ferma, al benessere animale certificato CreNBA – prossimo a diventare un pre-requisito – presto si sostituiranno altre istanze da comunicare al consumatore per convincerlo.
Sicuramente lo saranno la sostenibilità ambientale, il consumo di risorse, le emissioni climalteranti.
Essere pronti, prima degli altri, con un marchio, protocollo, filiera di verifica, comunicazione quando tutto ciò diventerà un inevitabile requisito da dimostrare sarebbe la dimostrazione che la lezione è stata capita.