Su una cosa siamo tutti d’accordo, quando ci si trova al chiuso di convegni, incontri, consessi, tavole rotonde e di ogni altra geometria: l’allevatore italiano lavora mediamente bene, anzi, più che bene.
Del resto, con tutte le complicazioni che ha per fare andare avanti l’azienda rispetto ai suoi concorrenti nord europei, bisognerebbe davvero fargli un monumento.
Di terra ne ha poca, ma di vacche deve averne tante, e tutte devono produrre al massimo. Il personale è poco, costa tantissimo e non di rado è poco affidabile, e allora deve dividersi in quattro per fare un po’ di tutto. Gli oneri finanziari che deve sopportare sono spesso molto alti, ma del resto per tenere in piedi la baracca servono forti iniezioni di capitale per macchine, strumentazioni, tecnologia.
E poi per le quote e gli affitti ha speso tanti soldi che messi in fila uno dopo l’altro chissà dove arriveremmo.
E non scordiamoci la burocrazia e la vigilanza, quella ordinaria e quella sanitaria, che non di rado agiscono a strati: prima una visita per una cosa, poi un’altra di un altro funzionario, magari – se il giorno è fortunato – una terza ispezione di un altro soggetto ancora e, se proprio non vogliamo farci mancare nulla, anche una visitina dei Nas. Morale: giornata di lavoro persa.
Tutti ostacoli che al confronto il problema dell’infertilità è una passeggiata. Mettiamoci poi gli sbalzi climatici, la tropicalizzazione strisciante, le incognite sui ricavi… Insomma, ogni giorno c’è una montagna da scalare.
Ma torniamo all’incipit: chi conosce questa realtà? Quale idea si ha al di fuori della solita compagnia di giro sul lavoro di chi alleva, di come lo svolge, della passione e dell’amore che ha per gli animali? E, soprattutto, del fatto che ogni giorno mette a disposizione di tutti il migliore alimento del mondo, il latte?
C’è una vulnerabilità del settore che va oltre quella economica e tecnica: è una pericolosa vulnerabilità di immagine. tutti lavorano e coltivano per fare risaltare la propria: industria, distribuzione, ristorazione… chi produce, invece, va in ordine sparso e in genere contromano.
Viviamo in un’epoca di ribaltamento, dove la realtà e la verità sono diluite da visioni estreme e minoritarie, dove bisogna scendere in piazza per dire che il bianco è bianco e il nero è nero…
Ma anche le grandi panzane diventano pensiero condiviso a forza di essere reiterate, magari con divulgatori alla moda ed efficaci.
E così, goccia dopo goccia, passa il messaggio che l’allevamento è sfruttamento, che le stalle sono lager, che non è etico sfruttare gli animali per produrre alimenti per l’uomo.
Ma perché queste piogge acide riescono a introdursi nella terra buona del buon senso comune, inquinandolo? Perché mai nessuno si è preso la briga di spiegare che la realtà è un’altra, che le stalle moderne sono luoghi di tecnologia, efficienza, ma anche di amore per gli animali, che la realtà delle cose va ben oltre la sempre possibile idiozia di qualche soggetto isolato.
Qua e là qualche sforzo per comunicare all’esterno questi valori viene fatto, ma l’efficacia comunicativa nei confronti della controinformazione dominante ricorda le cariche della cavalleria polacca contro i carri armati tedeschi nel 1939.
Servono metodo, capacità, obiettivi chiari. La comunicazione di un’immagine è come il latte: per piacere deve essere fresca, per colpire deve avere gusto, per essere ricordata deve lasciare un’impronta sulle labbra.
Anche l’immagine, come il latte, deve essere di alta qualità.
Eccoci! Proprio ora che questo blog cominciava a piacermi arriva la struggente storia del povero allevatore italiano. Ma che palle! E poi di cosa stiamo parlando? Esiste anche solo un dato a supporto delle banalita’ di questo articolo? A me non sembra.
La verita’ e’ che l’allevatore Italiano se la passa molto meglio dei sui colleghi europei. A quanto pare pero’, il piagnisteo che produce mentre incassa 10 € al quintale in piu’ rispetto algi altri (quando va male) e’ talmente insopportabile che tutti sono costretti a dargli ragione.
Anche lasciando perdere il prezzo del latte, che comunque e’ abbastanza eclatante, solo chi non conosce il Nord Europa puo’ pensare (o scrivere) che in Italia la normativa sia piu’ restrittiva. In Olanda, per esempio, le vasche dei liquami devono essere coperte (e chiuse), per l’utilizzazione agronomica e’ obbligatorio l’interramento e l’uso degli antibiotici e’ limitato per legge.
Nella gloriosa Pianura Padana invece, l’odore di merda e’ parte integrante del paesaggio (e nessuno puo’ dire niente altrimenti e’ un verde del cazzo!). Si perche’ gli allevatori italiani, poverini, vivono e lavorano per un nobile obiettivo comune, anzi due: la botte di Bossini da almeno 200 q.li ed il Fendt con almeno 5 scalini per arrivare in cabina.
Appena finito il blocco invernale, in un unico giorno, tutti gli allevatori d’Italia riempiono le loro botti tre assi con un miscuglio al 50:50 di urina e antibiotico e, dopo essere passati davanti al bar del paese, liberano tutta la potenza dei loro trattori in un getto di liquame lungo almeno 50 metri. Tutto cio’, non solo e’ legale, ma viene supportato ed addirittura finanziato con soldi pubblici. In sostanza, gli stessi che devono vivere nell’odore di merda sono quelli che pagano per le botti che producono l’odore di merda.
Vogliamo parlare di benessere animale ? In Danimarca, per fare un esmpio, la legge definisce dimensioni e criteri per la costruzione delle stalle. In Italia invece non esiste una legge sul benessere delle vacche da latte ed i poveri allevatori italiani sono autorizzati a tenere gli animali in stalle fatiscenti costruite 50 anni fa. D’altronde come si fa ad imporre un adeguamento? I poveracci hanno gia’ dovuto spendere tutti i soldi per la botte e per il Fendt…
In Svezia e Norvegia e’ obbligatorio garantire l’accesso al pascolo alle vacche (anche a quelle in lattazione) per tutti i 6 mesi estivi. In Italia invece la parola pascolo sembra non avere nessun significato. Chi ne parla non capisce niente di zootecnia oppure e’ frocio. Eppure anche in Italia le pubblicita’ di quasi tutti i latticini usano l’immagine della vacca al pascolo per vendere latte che in realta’ e’ prodotto con mais e soia OGM, con vacche che non hanno mai nemmeno assaggiato l’erba verde, che probabilmente non sono mai uscite dalla stalla e che in media fanno 2 lattazioni e poi sono da macellare.
Quindi, per tornare all’articolo del buon Acerbis, dobbiamo augurarci che la comunicazione riguardo al latte italiano rimanga di qualita’ molto bassa, farcita delle solite falsita’ e dei soliti luoghi comuni. Solo cosi’ potremo continuare a vendere i latte ed i formaggi italiani come se fossero migliori degli altri….