Finché il latte italiano sarà una commodity indifferenziata, trattato più o meno alla stessa stregua di un latte lituano o tedesco, saremo destinati a soccombere in ogni trattativa. Questo perché il mercato è mondiale e, piaccia o no, è il mercato mondiale che in larga misura fa il prezzo del latte. E sul mercato mondiale i volumi italiani hanno un peso irrilevante, coprendo poco più dell’1% della produzione globale.
Non solo.
I grandi produttori di latte hanno tutti dei costi di produzione più bassi dei nostri, con un vantaggio per buona parte di essi, la cui zootecnia da latte è basata sul pascolo, rispetto a noi: possono accendere e spegnere la produzione in base all’andamento del mercato, spingendo o mollando il pedale dell’alimentazione.
Al contrario le nostre stalle sono obbligate ad avere la massima spinta produttiva per avere un margine rispetto ai costi, anche se questo, in momenti come l’attuale, con i prezzi del latte che sappiamo, non basta e la redditività è nulla se non peggio.
Cosa è stato fatto fino ad ora?
Si è puntato sull’aumento dei numeri per avere le maggiori economie di scala, con aziende sempre in diminuzione come numero ma più grandi e con mandrie più numerose. E si è lavorato per ridurre al minimo i costi di produzione, tagliando e limando tutto il possibile. Certo, non ovunque e sicuramente ci sono stalle dove il miglioramento tecnico-gestionale potrebbe portare a una diminuzione dei costi.
Tuttavia non si sfugge al problema: con questi prezzi del latte anche i migliori vanno sotto. Anche perché non va dimenticato che lo stesso percorso di razionalizzazione è stato fatto anche all’estero e quindi, in termini assoluti, nel confronto tra i costi di produzione il delta che ci penalizza è rimasta pressoché invariato. Mai come ora quindi è chiaro quanto la strategia sino ad ora seguita dal sistema latte italiano – più o meno in ordine sparso – di ridurre all’osso i costi sia arrivata al punto finale: al di sotto non si può andare.
Dunque, che fare?
La strada più semplice sembra quella di trovare nemici esterni a cu addossare tutte le colpe. È un esercizio facile, molto seguito in Italia da una classe dirigente (politica, tecnica, sindacale, associativa) che dietro alla criminalizzazione del nemico (l’industria, la grande distribuzione, le cisterne di latte tedesco al Brennero, i simil-dop, eccetera) evita di mettere in discussione se stessa.
Tuttavia, se la situazione è così grave al punto da minare la stessa sopravvivenza delle stalle italiane, molto dipende dal fatto che non si è fatto nulla, o pochissimo e in maniera ininfluente all’atto pratico, per agire sull’altra faccia della medaglia: dare maggiore valore al latte italiano togliendolo dal paniere delle commodity indifferenziate e posizionandolo sullo scaffale delle eccellenze.
Già, ma come?
Nessuna formula magica, solo buon senso.
Agire sull’offerta. Se tutto il latte italiano fosse organizzato mediante una forma associativa in grado di esprimere un solo rappresentante al tavolo di trattativa con l’industria, e questo rappresentante avesse tutte le informazioni precise dei flussi di latte internazionali, delle prospettive, degli andamenti, delle dinamiche industriali e di mercato, sicuramente avrebbe un peso assai più rilevante rispetto all’attuale pletora di rappresentanti dei produttori che affolla ogni tavolo e si trova di fronte, in genere, un solo interlocutore. Questo vale per la definizione del prezzo del latte crudo, ma anche per la commercializzazione di Grana Padano e Parmigiano Reggiano. Quanto più l’offerta è polverizzata, tanto meno si crea valore aggiunto, anche se si vende un’eccellenza.
Caratterizzare e segmentare. Chi l’ha detto che il latte deve essere tutto uguale? Se il sistema produttivo avesse una direzione unica si potrebbe lavorare per creare vari prodotti, orientati ai diversi segmenti di mercato: dietetici, funzionali, arricchiti, stipulando di volta in volta accordi con questo o quel gruppo industriale e definendo insieme volumi con caratteristiche specifiche e volumi certi di consegna negli anni. Da qui si potrebbe lavorare sul fronte tecnico (con la selezione, l’alimentazione, la gestione della stalla) per indirizzare le aziende coinvolte al tipo di produzione definita. Lo stesso potrebbe avvenire con il latte in esubero rispetto ai quantitativi di formaggio Dop previsti dai piani produttivi: perché non inventarsi prodotti ad hoc, indirizzati a fasce di mercato specifico, ma che abbiano la spinta formidabile della possibilità di fregiarsi, ad esempio, della scritta “fatto con latte di Parmigiano Reggiano”, potentemente evocativa in termini di marketing? E, restando nei Grana: chi l’ha detto che, fermi restando i sacri dogmi dei disciplinari, non si possano creare nicchie di valore aggiunto? L’esempio del Parmigiano Reggiano di vacche rosse è piccolo, ma assai significativo se si guardano i prezzi medi spuntati dai produttori.
Trovare vie nuove guardando all’export. Chi l’ha detto che, senza stravolgere tutto, non si possa adattare meglio la produzione ai gusti di certi mercati mondiali, per penetrarvi meglio? Magari il consumatore indiano – per dire – ama formaggi meno stagionati di quello di Reggio Emilia: cosa facciamo, obblighiamo un miliardo di indiani a uniformarsi ai gusti del consumatore di Reggio Emilia? Forse è più facile cambiare un po’ il formaggio e venderne di più.
Comunicare in maniera efficace mille anni di storia dietro al latte e ai formaggi italiani. Comunicare in maniera efficace significa trovare messaggi che arrivino direttamente al consumatore (italiano ed estero), ed evidenzino tutti i plus del nostro latte e dei nostri formaggi, unendo realtà ed emozioni: la qualità, la sicurezza, dunque, ma anche la storia, il paesaggio, la cultura, l’arte, la dolce vita. Va fatto in maniera professionale, continua, martellante, intelligente, investendo capitali. Sarà il consumatore che, interiorizzato questo messaggio di valore, innescherà, con la sua domanda, un processo di creazione di valore che possa premiare i produttori . Il valore sul mercato di un prodotto, qualunque esso sia, è dato dalla sua natura merceologica, ma anche – spesso soprattutto – da ciò che evoca il suo marchio: forse che il valore della Coca Cola, e il suo prezzo, è dato dalla esatta sommatoria dei suoi componenti merceologici? Figuriamoci! Conta moltissimo il significato emotivo di un marchio unico, che griffa un prodotto altrettanto unico, che suscita emozioni positive che il consumatore compra insieme al prodotto. Questo è accettato dal consumatore e anche pagato senza fare troppe storie. E mette al riparo dai competitori. Prova ne è che la Coca Cola ha avuto ed ha tantissime imitazioni, ma resta unica.
Tutto questo può essere riassunto in una sola parola: strategia. Senza sapere cosa si vuole ottenere non si può nemmeno attrezzarsi per ottenerlo. Se l’obiettivo è spuntare un centesimo in più dopo estenuanti trattative, allora continuiamo così. Ma non si va lontano.
Se invece l’obiettivo accrescere il valore del latte italiano in maniera duratura e imporlo al mondo come una cosa diversa dal resto del latte indifferenziato, posizionandolo in una nicchia di eccellenza capace di generare valore, allora c’è un sistema da rifondare.
E tanti orti e orticelli da abbattere.