Una volta è il pollo, un’altra è la carne rossa, e poi ci sono le uova, il latte…
La giostra degli allarmi è sempre in attività e con essa, volenti o nolenti, bisogna fare i conti. Non è facile, perché questa giostra gira alimentata da un’energia che il mondo della produzione capisce poco.
Figuriamoci se riesce a controllarla e frenarne gli impatti negativi.
L’energia in questione è quella prodotta dalle centrali della ricerca qua e là nel mondo (o da qualche fatto di cronaca nera che coinvolge questo o quell’alimento) quando entra in contatto con i professionisti dell’informazione decontestualizzata. Ossia delle frasi prese senza considerare quello che c’è prima e quello che c’è dopo.
Facciamo un esempio banale. Prendiamo la frase: “Dobbiamo uscire e mia moglie è ancora in ritardo. Quando fa così non la sopporto, ma è una donna meravigliosa e le si può perdonare tutto”. Ebbene, la frase ha un suo significato chiaro. Estrapoliamo però solo qualche parte: “Dobbiamo uscire e mia moglie è ancora in ritardo. Non la sopporto”. Ebbene, ricamando su questa frase si può costruire una realtà totalmente diversa da quella che indicava la frase originale.
Fate lo stesso con una ricerca scientifica di decine di pagine, grafici, tabelle. Metteteci la difficoltà nel capire temi tecnici e scientifici da parte di buona parte dei giornalisti, aggiungete la pigrizia mentale di molti e la tendenza alla scorciatoia, ossia scegliere frasi qua e là che possano essere utili a confermare un’idea preconfezionata (e che, si sa, farà, sicuramente effetto e permetterà di vendere copie ed avere audience), mescolate ben bene ed ecco confezionato il pasticcio.
E cosa c’è di meglio della paura per fare colpo?
Dall’altra parte della barricata poi c’è un pubblico semianalfabeta sui temi alimentari, che rifiuta di ragionare in termini di rischio/beneficio, ma vuole soltanto certezze apodittiche, slogan facili, con particolare predilezione per quelli catastrofici. Aggiungete che lo stesso messaggio è ripetuto decine di volte nella giornata dal copia/incolla di televisioni, radio, portali internet, in una gara ad aggiungere pericoli e rischi.
E del lavoro scientifico originale, nella sua interezza, chi se ne occupa? Praticamente nessuno. Però il pubblico stordito dal tam tam informativo, come il cane di Pavlov, ha un riflesso condizionato e smette di colpo di acquistare questo o quello, con danni enormi sulla filiera produttiva coinvolta.
Col tempo il danno si riassorbe, ma le cicatrici restano e l’immagine di chi produce alimenti peggiora.
Poi, dopo un intervallo più o meno lungo, la giostra riparte, e via così.
Quindi che fare?
Tanto per cominciare chi produce dovrebbe conoscere un po’ meglio i meccanismi dell’informazione (e della disinformazione) e non limitarsi ad attendere un colpo dopo l’altro a guardia scoperta, come fosse un fatto ineluttabile, come un pugile suonato sul ring.
Bisogna lavorare per spiegare, informare, far conoscere al più vasto pubblico possibile la realtà di chi produce alimenti. In una parola: educarlo, per mettergli a disposizione strumenti di giudizio che tolgano spazio a tutte le semplificazioni.
Certo bisogna investire, con sapienza e lungimiranza. Vero, i soldi sono pochi. Ma sul resto siamo sicuri che ci sia molto di più?