Se si beve meno latte il problema è di tutti: innanzitutto di chi beve meno latte, perché – checchè se ne dica – il latte è, e resta, un alimento eccezionale.
Ci rimette l’industria che lo lavora e ci rimette, ovviamente, chi lo produce.
Anche perché, in parallelo, cresce la concorrenza di tutto ciò che del latte prende il nome e, magari, il colore, ma latte non è, almeno nel senso bovino del termine, perché di composizione vegetale.
Tutta colpa degli altri?
Magari un po’ di colpa ce l’ha anche chi il latte lo trasforma (ma questo non assolve completamente chi lo produce, se pensa sia tutto e solo un problema di qualcun altro quello che accade fuori del cancello della stalla).
Qualche mea culpa, in verità, si sente qua e là nel mondo dell’industria di trasformazione.
Secondo Mike McClosely, co-fondatore e Ceo di Select Milk producers l’industria si è un po’ “seduta” negli anni, mentre altri si appropriavano dell’identità del latte, senza che vi fosse una risposta adeguata per contrastare questo furto.
Gli fa eco Sheryl Meshke co-presidente e Ceo di Associated Milk Producers Inc: “La parola latte, intesa come brand che veicola concetti forti dal punto di vista nutrizionale, è stata tolta a chi fa latte “classico” per diventare un termine applicabile a varie tipologie”.
Come risalire la china e contrastare l’avanzata dei “latti” di origine vegetale?
“Il sistema per riguadagnare la rilevanza per il consumatore – spiega – è quella di veicolare messaggi e condividere conoscenza riguardo al valore nutrizionale del latte. Dobbiamo essere più rilevanti per il consumatore millenial: i millenial vogliono una storia, vogliono un perché, vogliono sapere di più su tutto”.
“C’è bisogno di una interezza e i valori nutrizionali del latte sono la sola via per competere con i concorrenti al latte su base vegetale”.
“Il consumatore non sta cercando prodotti lattei a base vegetale”, secondo Sheryl Meshke. “È in realtà alla ricerca di valore aggiunto. Noi l’abbiamo – spiega – ma non abbiamo innovato, spinto, protetto il valore complessivo del latte e le sue qualità nutrizionali come avremmo dovuto”.
E veniamo allo yogurt greco.
Infatti, pur nella situazione difficile, chi ha creato qualche cosa di accattivante per i suddetti millenials (e non solo) è stato premiato dal mercato. Tra i tanti segni meno dei consumi di latte e derivati, spicca infatti l’eccezione dello yogurt greco, un prodotto con meno acqua, quindi più denso, più ricco di proteine e povero di grassi rispetto allo yogurt tradizionale.
Negli Stati Uniti – come riporta l’Huffington Post – le vendite di yogurt greco negli ultimi cinque anni sono passate da 60 milioni a 1,5 miliardi di dollari/anno.
Uno straordinario balzo nelle vendite che ha fatto la fortuna dell’azienda che per prima ci ha creduto e l’ha lanciato.
Come spiega Leo Bertozzi su Clal.it, Chobani “è divenuta in appena 12 anni il maggiore brand negli Stati Uniti. Grazie allo yogurt greco, certo, ma anche alla capacità di cogliere con rapidità il mutamento di attitudine del consumatore”.
“Tutto questo – sottolinea – surclassando i giganti del settore, forse troppo impegnati a riprodurre linee di prodotti sostanzialmente poco innovativi”.
Giganti che ora devono recuperare – con prodotti simili – quote di mercato perse. Tutt’altro che un’impresa facile.
Leggete un po’ cosa succede a chi il latte non lo fa bere nemmeno ai propri figli!
http://www.dailymail.co.uk/news/article-4510762/Baby-dies-parents-fed-gluten-free-diet.html
La colpa è di quelle latterie che per correre dietro a mode inequivocabilmente pessime per la salute si sono messe a produrre ogni tipo di bevanda dalla soia al riso alla mandorla e non ultima alla quinoa! Tutti sti beveroni non sono altro che acqua con estratti del caso zucchero e olio di cocco! Bisogna smetterla di rincorrere queste mode ! Dobbiamo iniziare a combatterle seriamente, portando a conoscenza delle masse fatti come quello successo in Belgio!