Quando gli obiettivi sono chiari e la meta da raggiungere è definita, le strade da percorrere possono anche essere differenti.
Dipendono da molti fattori e, proprio per questo, non si può a priori definire la strada migliore, con uno schema valido per tutti, comunquemente e dovunquemente.
Altrimenti questo assomiglierebbe un po’ – anzi, molto – a un dogma, un comandamento inciso nella pietra che solo metterlo in discussione viene considerato sacrilego.
In campo zootecnico, nella zootecnia da latte in particolare, questo approccio è abbastanza diffuso e non di rado costituisce un fattore scatenante di dispute ideologiche su cosa sia meglio fare e non fare.
Al contrario, proprio perché conta la meta da raggiungere, prima possibile e nelle migliori condizioni possibili, ogni azienda fa un storia a sé, e quello che vale nella stalla A può non valere nella stalla B o C.
Quindi, per non tirarla troppo per il lungo.
Qual è la meta a cui indirizzare il navigatore aziendale? Questo è il punto.
La metà, non c’è bisogno di dirlo, è la redditività, che non può prescindere dal minor costo di produzione possibile.
Tuttavia le coordinate sono ora un po’ diverse dal passato, quando tutto o quasi era una questione di produzione e performance. È chiaro che anche oggi sono un punto di partenza indispensabile, ma da soli sono un po’ fragili.
Devono essere coniugati, citando in ordine sparso, alla sostenibilità ambientale (ad esempio meno emissioni di CO2 equivalente dall’unità di latte prodotta, meno acqua utilizzata, meno agrofarmaci), alla sanità e al benessere della mandria (quindi meno farmaci utilizzati, benessere animale certificato – anche se, ci torneremo, la certificazione tecnica potrebbe non bastare – alla durata degli animali in stalla), alla “raccontabilità” (ossia alla presenza di elementi – sociali, emozionali – che arricchiscano la storia di ciò che si produce in direzione di ciò che il consumatore vuole sentire).
Questa è la meta, valida per tutti.
Tuttavia, come per ogni viaggio che si rispetti, stabilita una meta bisogna verificare quale strada per arrivarci è la più idonea rispetto al mezzo di cui disponiamo. E per mezzo intendo l’insieme inscindibile dato da genetica, strutture, attrezzature e management.
Se si tratta di un bolide da Formula 1, progettato per la massima velocità, sarebbe sciocco inerpicarsi per vie sterrate, come invece si potrebbe benissimo fare con un ottimo fuoristrada. E viceversa, con tutte le possibili sfumature.
La selezione, ora poi con il contributo della genomica, offre strumenti rinnovati per rendere un po’ più 4×4 certe macchine da circuito e un po’ più veloci certi fuoristrada. Qualcuno ha pensatori “cambiare auto”, rendendosi conto che quella che aveva era poco congeniale alle sue strutture o al suo management. Quelli che hanno scelto il crossbreeding hanno fatto un’altra scelta in tal senso (sia pure passando nel circolo degli eretici, per la questione di cui sopra in riferimento ai dogmi).
E poi c’è tutta la varietà di scelte legate alle strutture, alla campagna, ai protocolli di gestione, settori dove non mancano dogmi e regole date per immutabili, anche queste un po’ da rivedere in funzione delle nuove mete da raggiungere.
Sia come sia, la metà è definita e, volenti o nolenti, si è in gara. La gara la vince chi arriva alla fine, non chi inanella giri veloci ma poi si ferma ai box in una scia di fumo.