Il grossista è una figura importante nella filiera delle produzioni animali. Lo è soprattutto per quelle realtà cooperative, che producono ma non sono in grado di arrivare, da sole, al consumatore.
Tuttavia dato che nel processo di costruzione di valore, la “polpa” si sposta sempre di più da monte a valle, è chiaro che su questo passaggio intermedio debba interrogarsi chiunque produce.
Per varie ragioni. Come ricordava poche settimane fa in un convegno un noto accademico, che studia le filiere agroalimentari da anni, chi produce deve essere in grado di arrivare con il proprio nome e la propria identità al mercato finale, non fermarsi al grossista, come avviene per molte cooperative.
Perché altrimenti c’è il rischio che tutto lo sforzo fatto per innovare, crescere in qualità, sostenibilità, visibilità lasci in mano solo un pugno di mosche.
Se poi, come può essere, del grossista non si può fare a meno, si può sempre essere accorti.
Ricordando che un grossista non è un diamante, non necessariamente deve essere uno solo e per sempre.
Un episodio che mi ha raccontato un amico che segue varie cooperative di montagna.
Due cooperative simili, per numero di soci, per produzioni, per collocazione.
Eppure tra una e l’altra c’era una differenza significativa nel pagamento del latte ottenuto per i soci.
Solo una differenza vistosa tra le due realtà, una più felice, l’altra un po’ meno. La prima si avvaleva di tre grossisti, messi in qualche modo in competizione tra loro. La seconda ne aveva uno, storico, da sempre.
Ovviamente questo esempio vale per quel che vale, ci mancherebbe. Ma è significativo di una situazione da considerare. Se c’è del valore che sfugge ai produttori (e ce n’è) vanno cercate le strade per recuperarne almeno una parte.