Andando indietro con la memoria non c’era allevamento da latte che non fosse importante anche la produzione di carne. Le due produzioni procedevano parallelamente e la cosa non destava alcuna meraviglia. E, infatti, c’erano razze a duplice attitudine, anche se all’epoca questa distinzione era cosa forse da libri, ma certo non da pratica comune: dire che da un allevamento con bovine da latte si aveva anche una buona produzione di carne era come dire che di giorno c’è il sole e di notte no: una cosa ovvia.
Il passo successivo è stata la crescente specializzazione e la dicotomia latte-carne si è allagata sempre di più, al punto da rendere, per un allevamento da latte, la questione carne assolutamente marginale, se non un fastidio.
Perché parallelamente la selezione ha sformato bovine sempre più produttive, ma sempre più magre, praticamente irrilevanti, a fine carriera, come donatrici di carne.
Quanto al vitello maschio diventava sempre soltanto un fastidioso onere di cui liberarsene prima possibile.
Tralasciando gli aspetti etici – che pure sono diventati sempre più importanti negli anni – un siffatto percorso ha portato a una estrema specializzazione di stalle e animali.
Le stalle sono diventate totalmente dipendenti dal latte venduto per il ricavi e le bovine sono diventate talmente mono-attitudine sul latte da arrivare a limiti estremi di metabolismo che ne hanno reso sempre più impegnativo e oneroso l’allevamento, oltre a ridurne drammaticamente la vita produttiva.
Un quadro come questo assomiglia a un fornitore che ha un solo cliente. È una situazione rischiosa e sconsigliabile, ma tant’è: per la stragrande maggioranza delle stalle da latte tutto – o quasi tutto – poggia sul latte venduto.
Inevitabile? Probabilmente sì, dato il percorso di specializzazione sempre più estrema dei decenni passati.
Sostenibile? Qui i dubbi sono molti e riguardano diverse angolature. Ma su una voglio fissare l’attenzione: quella ambientale, che si sintetizza con l’impronta carbonica. Ebbene, anche da questa prospettiva si vede che una stalla da latte migliora il suo standard se cresce il suo significato anche come stalla dove si produce carne.
Il perché è intuitivo: buona parte del costo ambientale legato a foraggi, cereali e mangimi non cambia molto se, accanto al latte dall’azienda esce più carne, data dai vitelli e dalle vacche a fine carriera. L’impronta carbonica dell’azienda si diluisce su più prodotti e quindi si abbassa.
Insomma: la stalla da latte deve diventare sempre più anche una stalla da carne.
Perché alla fine sono anche i conti a dirlo e lo sa bene che ha impostato un razionale schema di incroci da carne per produrre vitelli meticci dalle vacche meno interessanti per la rimonta. E lo sa anche chi ha scelto razze che pur producendo quantità di latte elevate non hanno dimenticato di essere razze a duplice attitudine o, infine, chi punta all’incrocio non sottovalutando anche questa prospettiva
I tempi recentissimi insegnano che animali rustici, capaci di trasformare anche razioni più povere e grossolane saranno i benvenuti, semplicemente perché fare foraggi, per quantità e qualità, sta diventando sempre più complicato.