La nostra è una zootecnia da formaggio, lo si sa. Vivere producendo latte da consumo è sempre più un lusso che solo in altre parti del mondo possono e potranno permettersi.
Per tante ragioni, ma soprattutto per due motivi difficilmente modificabili: la terra e il clima.
Entrambi congiurano contro l’Italia e la sua zootecnia, mentre favoriscono quei paesi del nord Europa che, non a caso, con la fine delle quote latte sono partiti a razzo sommergendo di latte i mercati.
Vero, adesso anche loro ne pagano il prezzo, ma c’è da scommettere che al primo segnale di cambiamento ripartiranno.
Del resto quella è una zootecnia da latte che può giocarsi il bonus di una intensità produttiva variabile, in base mercato: può spingere di più o di meno la produzione con la leva alimentare. Meno mangimi se il latte è a basso prezzo, più spinta in mangiatoia se conviene.
In Italia non si può: ogni azienda ha dei costi fissi tali che è condannata a spingere sempre al massimo. E quello che produce è per forza un latte costoso, che per essere remunerativo deve essere inserito in circuiti di vendita capaci di creare valore.
La crisi attuale dimostra che questi circuiti sono tutti da costruire, ma non è detto che sia un’impresa destinata a fallire. E che potrebbe alla fine rivelarsi positiva anche per aumentare i volumi di vendita del latte da consumo.
Bisogna avere presente alcuni dati precisi:
- la quantità di formaggi Dop che il mercato interno ed esterno è in grado di assorbire cresce – e fortunatamente cresce – a un ritmo più basso di quanto servirebbe per dirottarvi quanto più latte possibile.
- per salvaguardare il prezzo la programmazione delle quantità è indispensabile.
Questo crea un’eccedenza di latte non più utilizzabile per le Dop, ma è pur sempre un latte che è stato prodotto dalle medesime stalle con la medesima gestione e alimentazione.
È questo il latte che può dare un valore addizionale alla filiera. Ma non può disperdersi e mescolarsi con resto: deve trovare vie di utilizzazione precise.
Ora, l’Italia è sempre stato un Paese di grandi trasformatori di materia prima. Le grandi Dop sono nate e si sono perfezionate anche grazie alle tante intuizioni di casari e tecnici di caseificazione.
Quello che si è fatto nei secoli passato dovrebbe rifarsi adesso: fare incontrare materia prima speciale e creatività nella trasformazione, per inventare prodotti nuovi o aggiornare quelli esistenti, sfruttando la spinta promozionale data dai grandi marchi.
E non è detto che questi percorsi di sviluppo non possano, in un secondo tempo, raccogliere i profughi del latte (messi sempre più ai margini del mercato dalle politiche delle grandi aziende multinazionali) che galleggiano nel mare di latte su barconi fatiscenti con l’incubo del naufragio.
E perché non immaginare sugli scaffali latte fresco o Uht griffato Parmigiano Reggiano o Grana Padano, con quel che c’è dietro in termini di italianità, sicurezza, alimentazione?
Pensate se per ogni formaggio Dop significativo in termini di volumi si affiancasse un latte confezionato con lo stesso marchio. E non solo per il mercato italiano. Non dimentichiamo gli scambi internazionali di latte Uht crescono di importanza…
Certo, la domanda da un trilione di dollari è: chi può aggregare tutto ciò e, come fosse un caglio, trasformare le micelle sparse dei produttori in una grande forma di peso e sostanza?
Non lo so. Però si sta creando una sensibilità nuova per il latte italiano e la sua filiera a livello politico-istituzionale, soprattutto a livello regionale, con iniziative e coinvolgimenti che non si erano mai visti.
Piangere sul latte versato non serve, dice il proverbio, ma il latte versato nella fossa, oltre a evidenziare la drammaticità del momento, sembra sia riuscito a sbloccare certe inerzie e a spostare il focus dalle chiacchiere all’azione. Che è sempre meglio di niente.