Che i consumi di latte non se la stiano passando troppo bene è cosa nota da tempo. Il latte fresco è una bevanda che ha smesso di essere cool da un pezzo e anche i tradizionali consumi domestici segnano il passo, sotto i colpi dei cambiamenti della società, lo sgretolarsi della classica struttura famigliare che fa colazione rigorosamente con il latte e l’affermarsi di nuovi gusti e nuove bevande.
Questa era una tendenza in atto da tempo, ma negli ultimi anni, su questo filone, si sono innestati altri trend mediatici ben più aggressivi e pericolosi per l’intera filiera del latte, a partire dai produttori.
Si tratta, da un lato, degli allarmi per la sanità delle produzioni animali, con un occhio fisso ai residui di farmaci; dall’altro è emersa prepotentemente la questione ambientale e climatica, con l’allevamento animale pesantemente messo sotto accusa.
Accuse fondate? Certo non con la magnitudo delle accuse. Sia per i residui di farmaci che per le emissioni di gas a effetto serra, la situazione generale degli allevamenti in buona parte del mondo, Italia compresa, è assai meno preoccupante di quanto si scriva e si dica.
Eppure la tempesta cresce di intensità, con momenti di calma apparente e accelerazioni improvvise, e il fuoco mediatico contro il latte cresce di precisione. Perché? Perché il livello rigorosamente tecnico-scientifico, quello che poggia su dati e numeri e non sulle emozioni, non è quello su cui si muove la macchina mediatica.
O, meglio, questo livello rimane, ci mancherebbe. Ma è funzionale, quasi al servizio, di un livello ideologico che contesta la legittimità dell’allevamento animale e ciò che ne deriva.
Attenzione, perché questa vision è sempre di più la vision di default, la matrice in cui si genera tutta la produzione mediatica (dal serio giornale al più scalcinato sito internet, non parliamo poi del chiacchiericcio dei conduttori radiofonici o televisivi) che, infatti, è sempre accusatoria verso il mondo dell’allevamento.
Molto, molto di più di quanto non lo sia verso altri contesti che, quanto a pericolosità per la salute pubblica e per la sostenibilità ambientale, sono un pericolo maggiore degli allevamenti.
Torniamo al latte con un paio di spunti che la cronaca recente offre a supporto di quanto detto sopra.
Andiamo negli Stati Uniti, dove Starbucks ha preso la decisione di orientare i clienti che entrano nei suoi locali al consumo di bevande alternative al latte. Perché? Per proteggere l’ambiente, dice. Per ridurre l’impronta carbonica di quanto mette nelle sue tazze e nei suoi bicchieroni. Vero è che Starbucks vale solo lo 0,3% del latte prodotto negli Usa, ma più che il numero conta il nome: l’effetto domino che le grandi marche possono scatenare è cosa di un attimo e, quando la marca leader in un settore prende una decisione precisa, molte altre seguiranno (è solo questione di tempo). Non è casuale che due giganti Usa del dairy – Dean Food Co. e Borden Dairy co. – abbiano dichiarato bancarotta. Per inciso, Dean Foods Co è uno dei principali fornitori di Starbucks.
Ma davvero le cose stanno come la mossa del gigante del caffè Usa lascia intendere con la sua mossa? Un rapporto della Fao del 2019 stima in 1,712 milioni le tonnellate di CO2 equivalenti legate all’industria del latte, circa il 3% delle emissioni mondiali nel 2015.
Segnala anche una crescita del 18% delle emissioni dal 2005 al 2015, ma questo è legato al crescere della produzione per rispondere alla domanda alimentare e, dettaglio importante, certifica anche come i livello di emissioni diminuisca con il crescere dell’efficienza.
Del resto che la strada dell’efficienza sia già stata intrapresa da tempo negli allevamenti e che l’innovazione delle pratiche e delle tecnologie stia conducendo a una riduzione del valore di impronta carbonica della produzione di latte è un dato di fatto.
Dunque, dove stanno i numeri a supporto della decisione di Starbucks? Dove sta appoggia il supposto minore impatto ambientale delle bevande alternative? Davvero per un colosso come Starbucks, il latte che arriva da poche centinaia di km “pesa” maggiormente in termini ambientali rispetto al caffè che di km ne fa migliaia per arrivare nelle tazze di americani e non, come è stato fatto notare da qualche osservatore? Come si vede non è solo una questione di numeri per decidere chi scrivere sulla lavagna dalla parte dei buoni o dei cattivi.
E ora veniamo in Italia. Un’inchiesta de “il Salvagente” , ampiamente ripresa, ha ricercato nel latte la presenza di svariati principi attivi farmacologici, solitamente utilizzati negli allevamenti di bovine da latte, trovando nel 57% dei latti analizzati residui di Meloxicam (antinfiammatorio non steroideo), Desametasone (corticosteroide) e Amoxicillina (antibiotico).
Tutte queste molecole erano presenti al di sotto dei LMR di legge, ossia dei limiti massimi di residui ammessi. Quindi, di fatto, tutto regolare.
Se non fosse che, in termini mediatici, un acronimo oscuro come LMR rende assai poco, mentre ha un impatto assai maggiore il mero riscontro di una data molecola.
Anche perché, obiettivamente, chi, tra i consumatori, sa destreggiarsi tra unità di misura infinitamente piccole? Al contrario tutti sanno comprendere la questione in termini binari: sì o no. I residui ci sono sì o no? Sì.
E a questo punto è un gioco da ragazzi sollevare tutti i dubbi possibili in termini di possibilità e rischi per la salute (in termini di antibioticoresistenze o di alterazione del microbiota intestinale), anche se i limiti di legge sono ampiamente rispettati.
Non è una fake news, attenzione: quello che si dice è tutto vero. Si dice che i residui sono stati trovati, che erano ampiamente nei limiti di legge, ma si seminano dubbi che ci sia dell’altro e proprio questo “altro” impatta perché tocca corde non razionali e fornisce munizioni efficaci a chi si è dato la mission di sparare sull’allevamento.
A questo punto quali conclusioni trarre?
Una prima osservazione, che è la cornice di tutto: la produzione di latte è sotto attacco.
Questo è innanzitutto l’assunto ideologico di una minoranza, ma trova declinazioni importanti in molti centri dove si crea e si diffonde un certo modo di pensare a livello globale. Come ogni ideologia anche quella del no-farming ha vari modi di essere applicata.
La questione ambientale e quella dei residui di farmaci sono due formidabili leve a massimo impatto sull’opinione pubblica.
Ma questo è reso possibile dalla disastrosa titubanza, se non completa assenza, del mondo della produzione nel contrapporsi efficacemente.
Come? Usando le stese leve, quella ambientale e quella dei residui di farmaci.
Dimostrando cioè che a livello ambientale e a livello di utilizzo di farmaci (e quindi di residui) le cose stanno diversamente da come vengono raccontate.
Il problema è che, per dirlo, bisogna esserne certi.
Bisogna avere numeri e dati, percorsi virtuosi di miglioramento da proporre.
Di fronte alle tempeste che si stanno abbattendo sul latte (e tutto fa pensare che siamo solo all’inizio) bisogna avere ben chiaro in testa che i temi della sostenibilità ambientale, dell’eticità di produzione, dell’uso di farmaci ridotto al minimo (e a un minimo che sia sempre più basso) non sono più eludibili ma stanno alla base della stessa sopravvivenza della zootecnia (dal 1975 ad oggi il consumo pro-capite dei prodotti del latte negli Usa è calato del 40%, passando da 113 a 66 kg all’anno).
Non bastano enunciazioni di buoni propositi: servono protocolli impegnativi, dati, verifiche oggettive, certificazioni, affinché ci sia modo di dimostrare quanto di annuncia.
Non tutte le bovine sono adatte per questi nuovi scenari, non tutte le stalle e forse nemmeno tutti gli attori della filiera. Quelli, per intenderci, che pur con queste nuvole sempre più minacciose all’orizzonte, continuano a non preoccuparsi di avere almeno un ombrello.
O non considerano il tutta la sua crudezza che detto ombrello potrebbe comunque interessare i produttori di latte, ma da un ben più antipatico itinerario.
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