Con una certa frequenza il tema dell’allevamento intensivo prende quota nel dibattito alimentato da coloro che di allevamenti (intensivi o con qualsivoglia aggettivo) ne vorrebbero vedere pochi, se non eliminarli del tutto.
Certo, non lo dicono, ma sicuramente lo pensano.
Quindi, primo punto da ricordare: non sarà una passeggiata far passare i concetti più banali, sulla strada della narrazione, visto che il mondo della produzione comincia a svegliarsi ora sulla necessità di puntare su questo, mentre “l’avversario” è già al galoppo da tempo, con abilità, motivazione, agganci giusti nei media e mezzi finanziari.
Torniamo a noi.
L’aggettivo “intensivo” ormai ha assunto connotati negativi nell’opinione pubblica, perché, a furia di dare a questo termine l’equivalenza di sfruttamento industriale di terra, animali e risorse, la maggior parte della gente ha finito con il crederlo.
Ragione per cui, a mio opinabile avviso, sarebbe meglio parlare di allevamento “razionale”.
Comunque sia, non sta qui il punto.
La questione invece è che – chiamiamolo come vogliamo – l’allevamento italiano ha una sua tipicità e, anche se intensivo, lo è in una maniera assai diversa da quello che significa questo termine altrove nel mondo, con aziende di migliaia e migliaia e ancora migliaia di capi, con tutto ciò che ne consegue in termini di impatto ambientale, industrializzazione delle procedure, rischi biologici.
La particolarità italiana invece è fatta di allevamenti medio-piccoli, con pochissime eccezioni di allevamenti con qualche migliaio di capi.
E, ancora, sono allevamenti per la maggior parte a conduzione famigliare, con un inserimento nel territorio che conta svariate generazioni e, proprio per questo, sono le aziende stesse i primi attori attivamente impegnati a preservare il territorio (perché andrà alle generazioni successive) da cui hanno tratto valore, per loro e per gli altri. Da quando si arava con i buoi, spesso.
Andiamo avanti: la dimensione medio-piccola fa sì che il rapporto uomo-animale sia ancora improntato a un’attenzione, una cura, un “affetto” uomo-animale che è impossibile trovare nelle mega-farm asiatiche, arabe, russe o americane.
Quelle sì con un approccio industriale e tutti i rischi che comporta.
Lo stesso vale per la gestione delle campagne, la cura del territorio, la continuazione di tradizioni, cultura e storia dell’area dove, non di rado, l’azienda agro-zootecnica è uno degli insediamenti con più storia e tradizione, un vero e proprio presidio anche culturale.
E anche per quel che riguarda le emissioni le cose stanno in realtà molto diversamente da quanto si lasci credere: il sistema agro-zootecnico immagazzina più C02 di quanta ne emetta.
Numeri alla mano da ricerche anche molto recenti, non suggestioni o meme. Unico settore produttivo, tra l’altro.
Ora, come si può sperperare questi spunti lasciandoli a prendere polvere sullo scaffale della comunicazione?
Perché non si racconta anche questo al consumatore sempre più sradicato? Perché non si dice chiaro e forte che “l’allevamento italiano”, ancorché intensivo, è tutta un’altra storia tecnica, sociale, culturale e persino ambientale?
Un “unicum” come le Dop che produce e che, guarda caso, sono figlie della stessa storia e della stessa cultura che affonda nelle generazioni antiche?
Già, perché non lo si fa? Forse perché non si è mai pensato che servisse.
Ora però si capisce che non è così e il terreno perso sarà da riconquistare metro per metro.

