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L’accordo sul prezzo del latte e alcune considerazioni a margine, per il domani e il dopodomani

Luca Acerbis di Luca Acerbis
25 Settembre 2022
in Mercati
Tempo di lettura: 5 minuti
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Cominciamo con il riassumere in estrema sintesi i termini dell’accordo stipulato tra produttori e Italatte per la Lombardia, che con il suo peso nel settore del latte nazionale diventa di fatto l’accordo di riferimento nazionale.

 

In Lombardia il prezzo minimo del latte sarà di 37 centesimi/litro per il mese di gennaio, salirà a 38 in febbraio e 39 in marzo e aprile. È stata definita anche un’indicizzazione che, contrariamente a quella fatta finora, terrà conto anche del prezzo del Grana Padano, sia pure per il 30% di un paniere che avrà all’interno per la rimanente parte la media del prezzo del latte negli altri Paesi Ue. Si è inoltre stabilito che non ci saranno più limiti quantitativi nel conferimento, ma solo un’indicazione stimata delle produzioni da parte delle singole stalle conferenti. Alla scadenza dell’accordo, nel mese di aprile 2017, le parti hanno stabilito di riaprire un tavolo di confronto.

 

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La questione offre vari spunti di riflessione, che cerco di elencare, senza alcuna pretesa di scientificità, ma solo come materiale per il dibattito.

 

Un primo aspetto positivo che balza all’occhio è l’unità da parte delle varie sigle sindacali, che hanno portato avanti e chiuso la trattativa unite, senza le lacerazione e le accuse reciproche di accordi passati, importanti o zoppi in base ai punti di vista. Essere uniti è importante, dare un’immagine di unità idem, quando si devono affrontare interlocutori difficili.

 

Entrando nel merito dell’accordo ci sono i numeri, nel senso di centesimi al litro, che non sono da disprezzare. E poi c’è l’aggancio al prezzo del Grana Padano che introduce, sia pure per una frazione limitata al 30%, una indicizzazione legata alla specifica situazione italiana. È un passo avanti importante, un punto di partenza più che di arrivo. Non solo: cade la tagliola delle quantità, che di fatto introduceva dalla finestra le quote latte uscite dalla porta. Quote che hanno reso (metaforicamente) carta straccia le quantità di latte prodotte in sovrappiù, pagate a prezzi da lacrime. Ora basta una comunicazione su quanto si presume di produrre per il 2017.

 

Anche qui, buone nuove.

 

Infine la messa nero su bianco della volontà di riprendere subito la trattativa tra le parti alla scadenza di questo accordo. Anche qui, visto il nicchiare e il tergiversare del passato da parte dell’industria è un buon segnale.

 

Sicuramente l’accelerazione e la conclusione dell’accordo in questi termini sono figli di uno scenario internazionale in rapido cambiamento, che definisce nei prossimi mesi quantità di latte disponibili per la macchina industriale lattiero-casearia in declino.

 

Ci sono le minori produzioni in Oceania per difficoltà climatiche, la riduzione della produzione europea, in virtù degli incentivi concessi dalla Ue, ma anche con una prospettiva di possibili ridimensionamenti delle mandrie da latte in Paesi come Germania e Olanda per questioni di nitrati e fosfati.

 

Difficile poi immaginare nella Ue (malgrado l’acume dei suoi leader, che proprio ieri le hanno prorogate) una continuazione a lungo delle sanzioni alla Russia, con l’aria nuova arrivata dopo l’elezione di Trump negli Usa. Si apriranno (o riapriranno) nuovi (vecchi) mercati, facilitati anche dalla debolezza crescente dell’euro rispetto al dollaro, spinto dalla politica monetaria della Fed.

 

 

Tutti elementi che significano meno latte che preme sul bacino italiano.

 

Ma ci sono anche elementi nazionali significativi. Già detto dell’unità sindacale (che conferma l’idea, ovviamente senza capo ne coda, di chi sostiene che avere tante sigle è inutile o dannoso. Inutile se sono tutti d’accordo, perché allora ne basterebbe una, e dannoso se non sono d’accordo, perché allora si fa più danno che utilità) c’è da valutare il peso delle Op, che sta crescendo come numeri e quantità di latte aggregato ed è un dato importante, poco per l’oggi e molto per il domani.

 

Altro elemento importante è la norma sull’etichettatura, il cui impatto andrà valutato nei prossimi mesi, ma che sicuramente è un altro fattore, anche di marketing, importante e del quale anche l’industria ha sicuramente colto le opportunità.

 

Fin qui i termini dell’accordo e il ragionamento in termini di mesi.

 

Tuttavia vorrei spostare un po’ il tiro su una prospettiva più a medio-lungo termine.

 

E vorrei farlo da una considerazione. Chi produce e vende semplici materie prime (dal cacao al caffè, dal petrolio al rame e via discorrendo) fa e farà sempre più fatica a tenere il passo di mercati volatili e nervosi, dove comandano gli algoritmi finanziari e un pugno di broker ha più potere di governi e ministri.

 

Detto ciò, aggiungo una seconda osservazione: produttori di latte e industria giocano una partita simile, ma non è la stessa. Si coprono con la stessa coperta, ma non basta per tutti e due: qualcuno resta sempre con i piedi al freddo. Se il latte a disposizione è tanto sono i produttori; se il latte diminuisce per varie ragioni, è l’industria a doversi scoprire un po’ e pagare di più.

 

Ma la questione fondamentale è: non basta più fare solo una materia prima. I margini sono troppo risicati rispetto ai costi, e i costi di produzione difficilmente si possono tagliare più di così.

 

Quindi?

 

Quindi bisogna recuperare redditività appropriandosi di altri segmenti della filiera, abbinando alla dimensione agricola quella industriale: esatto, i produttori devono diventare essi stessi gli industriali del loro latte, che studiano prodotti nuovi, che conquistano mercati, che gestiscono il marketing con competenza e aggressività.

 

Certo, non può farlo il singolo produttore. Deve essere una strategia complessiva del settore. Un orizzonte di riferimento, qualcosa di simile a chi fa Grana nelle cooperative più evolute: del resto il confronto del ricavo ottenuto per litro di latte prodotto nelle due realtà (a parità, grosso modo, di costi) è impietoso per chi vende la semplice materia prima rispetto a chi vende formaggio Dop.

 

Ebbene, lo scenario strategico dovrebbe essere la messa in pista di una filiera del latte italiano Dop, a forte contenuto industriale e aggressiva sui mercati, fatta da chi il latte lo produce. Non dimentichiamo che il commercio del latte Uht cresce, crescono i consumi di derivati del latte, di prodotti aromatizzati, di prodotti nutraceutici, di prodotti per il fitness basati sul latte e i suoi componenti.

 

E, dato che si ragiona sul dopodomani, ci sono mille prodotti da vendere che ancora non esistono.

 

Non è obbligatorio farlo, ovviamente. Solo così, però, si recupera redditività. I centesimi al litro che si ottengono nelle contrattazioni vanno e vengono, in base alle circostanze, ma sempre più a fatica permettono di andare oltre la copertura dei costi, anche nelle fasi positive, per investire e crescere.

 

Produrre una semplice materia prima da vendere a chi si occupa di tutto il resto lascerà in futuro sempre più solo le briciole del pasto.

 

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