Sembra che a breve un’industria di prima grandezza metterà in commercio sugli scaffali italici latte A2.
Una novità per lo scaffale tricolore, ma non una novità in senso stretto: l’attenzione alla variante A2 della beta caseina non è di oggi, in aree lattifere evolute e con le antenne sintonizzate all’evolversi dei consumi.
Un po’ meno in Italia, fino ad ora, salvo qualche lodevole voce nel deserto che mette in guardia su come altrove ci si stia già muovendo con prodotti e marketing adeguati alla sfida.
La cosa potrebbe interessare anche chi produce e vuole dare una caratterizzazione mirata al proprio latte.
Perché dovrebbe interessare la sigla A2 a chi fa latte e, soprattutto, vuole venderlo a un prezzo possibilmente superiore al livello di elemosina?
Semplice, perché il consumatore è sempre più interessato alla nutraceutica, ossia alla possibilità di nutrirsi e, contemporaneamente, curarsi o prevenire le malattie. Il latte, a questo riguardo, è una vera e propria miniera, una scatola magica dove ognuno, cercando, può trovare un’infinità di opportunità.
Purtroppo c’è anche qualche sostanza su cui si posano le attenzioni della ricerca per suoi supposti effetti potenzialmente negativi.
Tra le più cool del momento c’è la variante A1 della beta caseina, guarda caso la più diffusa nel latte delle razze da latte che hanno subito la selezione più spinta.
Ebbene, ci sono ricerche, che hanno l’epicentro in Nuova Zelanda, secondo le quali questa variante della beta caseina sarebbe collegabile a vari problemi di salute, il più eclatante un suo possibile collegamento con l’insorgenza del diabete.
Questo non avverrebbe invece con la variante A2, molto meno diffusa, perché non si formerebbe, durante la digestione della proteina, un composto proteico intermedio che provoca i problemi di cui sopra.
Ora, intendiamoci.
Come sempre in questi casi la dimostrazione reale di un pericolo per la salute umana è tutt’altro che facile, richiede tempo e ricerche e difficilmente arriva a conclusioni univoche e definitive.
Quindi anche la questione A2.
Tuttavia c’è un importante aspetto di marketing da considerare: quando l’opinione pubblica si appropria di un concetto legato a un possibile nesso tra una sostanza alimentare e la salute, con tutte le semplificazioni del caso, c’è un deciso spostamento nelle preferenze di acquisto che in genere penalizza il produttore, ma che anche può avvantaggiarlo, se si trova in una posizione favorevole.
La beta caseina A2 potrebbe rientrare benissimo in questo scenario.
L’importante è essere pronti, ma per esserlo bisogna sapere partire in anticipo.
Ad esempio lavorando sulla selezione, per aumentare la frequenza nella mandria del gene responsabile della produzione di beta caseina A2. Usando tori A2A2 (omozigoti) oppure A1A2, controllando poi con un test del DNA il genotipo delle figlie.
Si potrebbe immaginare una separazione del latte prodotto dai due gruppi di animali presenti (cosa facile, ad esempio, con un robot di mungitura).
Certo, adesso nessuno chiede questo e nessuno lo paga. Ma diamo tempo al tempo, e nemmeno troppo tempo, in verità.
Già ci sono linee di prodotto griffato A2 sugli scaffali e non ci vorrà molto affinché di beta caseina A1 si cominci a parlare nei media generalisti arricciando il naso, come fosse un olio di palma qualsiasi.
Portarsi avanti è quindi una mossa lungimirante.
Garantire un latte 100% A2 potrebbe ripagare i costi, per chi si farà trovare pronto all’appuntamento.