La drammaticità della situazione può portare a due esiti opposti: il primo, auspicabile, la messa in comune di ogni sforzo per uscirne, mettendo un surplus di fiducia gli uni verso gli altri.
Il secondo, come i capponi di Renzo, continuare a beccarsi mentre si è portati verso la pentola di Azzeccagarbugli.
Questo vale per tutti i settori produttivi, anche per chi fa latte. Significa, anche se costa, agire pensando in una logica di filiera e non di singola azienda.
Quindi – anche – assecondando le richieste di ridurre la produzione in questa fase complicata, mettendo in atto quelle misure che, senza alterare la funzionalità e l’operatività della stalla, possono portare a questo risultato.
Un gesto di buona volontà ora può essere il punto di partenza per nuovi rapporti domani, a tempesta passata.
Naturalmente è un aspetto della questione, poi c’è tutto il resto da fare con urgenza, e qui si misurerà il peso delle istituzioni e la loro capacità di essere significativi anche in Europa: le proposte non mancano. Se in passato si sono accumulate masse enormi di polvere di latte, ad esempio, lo si dovrebbe fare a maggior ragione ora. O programmare degli ammassi pubblici di formaggi fuori commercio, da avviare alla cooperazione e agli aiuti internazionali, dirottando per la caseificazione quote di latte ritirato delle stalle in difficoltà.
Ma ora torniamo alla questione centrale.
È vero, siamo deficitari di latte. E sono io il primo a dire che si deve fare ogni sforzo per arrivare all’autosufficienza. Ma senza guardare la realtà in qualche lente deformante, dove sembra che basti un tratto di penna e si blocca tutto ciò che entra.
Perché questo avrebbe conseguenze su ciò che esce, e se si ferma l’export è un disastro. Già c’è un assaggio di questo scenario in questi giorni.
Parlare di autosufficienza senza conoscere perfettamente i numeri (economici e finanziari) delle stalle, come e dove lavorare per ridurre i costi e/o aumentare il valore di ciò che si produce, non ha senso.
Puntare all’autosufficienza significa ragionare in tempi lunghi, lavorare sui costi di produzione perché non ci siano stalle che corrono e stalle che arrancano, fissare una road map con tappe e obiettivi precisi, che coinvolga tutti, per fare del latte italiano ciò che è stato per il vino dopo l’emergenza del metanolo e l’azzeramento di quella filiera.
Un costo di produzione come quello di certi Paesi nord europei non è raggiungibile, ma quel che non si riesce a raggiungere sul costo di produzione deve essere ottenuto accrescendo il valore, con la qualità, con la sanità, con la sostenibilità della produzione, con il benessere animale, con tutto quanto è valore immateriale, con la comunicazione fatta bene da chi produce, e non a spot e senza crederci o delegata ad altri, come fosse un problema che non riguarda chi munge.
Il latte italiano al di fuori dei circuiti delle Dop deve smettere di essere una commodity e diventare una sorta di latte italiano Dop, che l’industria non può non preferire a quello importato, che è solo latte. Magari non tutto, non subito, ma progressivamente e stabilmente.
È un lavoro che deve coinvolgere tutti i produttori, perché nessuna singola azienda può farcela da sola. Vale per le aziende, vale per le industrie, vale per i sindacati di categoria.
Oggi però la priorità è non affondare tutti insieme. Avere ragione, mentre si va a fondo con chi si ritiene abbia torto, non è una grande soddisfazione, dopotutto.