La degradabilità ruminale (e non solo) dell’amido contenuto nella razione è un fatto di primaria importanza per la produttività della bovina da latte, oltre ad avere un effetto sulla sostenibilità dell’allevamento e la massima efficienza delle risorse alimentari utilizzate.
Senza entrare nel merito della fonte considerata, la degradabilità dell’amido è influenzata da vari aspetti connessi al trattamento meccanico e/o termico che ha subito.
Farine, dunque. Farine che entrano normalmente nelle nostre razioni presentano una degradabilità ruminale dell’amido che varia in funzione delle dimensioni della particella.
Tuttavia – e questo è il punto – il particolato che deriva dalla molitura è un fattore soggetto a grande variabilità, più di quanto si pensi. E questo, ovviamente, condiziona la capacità di sfruttare l’amido fornito, che potrebbe essere differente da quella pensata e inserita a livello di formulazione della razione.
Se osservate una qualsiasi farina (di mais o altro) sottoposta a molitura di 3 millimetri e poi passate alla setacciatura con setacci di differenti calibri, noterete una presenza di particelle estremamente più fini e altre più grossolane.
Dato che il comportamento nel rumine e nell’intestino di queste frazioni è estremamente differente, dare un valore unico di degradabilità unico diventa comprensibilmente problematico.
Certo, entrano in gioco tanti altri fattori, ma resta il fatto che la particle size, la granulometria ha un peso importante.
Una prova di laboratorio ha confrontato gli effetti di una molitura media e una fine di un mais vitreo e di uno farinoso. La degradabilità dell’amido del vitreo si dimostra modesta per molitura media (oltre 3 millimetri); un po’ meglio per il farinoso, ma sempre con soglie basse.
Se invece si passa a una finezza maggiore del particolato si mantengono le differenze tra vitreo e farinoso, ma aumenta la degradabilità.
Quindi? Se vogliamo aumentare la degradabilità di fonti di amido in generale, qualunque esse siano, magari di quelle meno note e usuali, si deve puntare a una molitura molto, molto più fine di quella che veniva considerata accettabile in passato.
In azienda il consiglio è quello di toccare, osservare, verificare il particolato che esce dal molino, per capire cosa si ha a disposizione e cosa aspettarsi.
Anche dotandosi di un setaccio che ci consenta una valutazione più oggettiva rispetto a quanto potrebbe essere fatto a occhio.
E questa osservazione dovrebbe essere fatta spesso, perché i coltelli, i martelli, i setacci, hanno tutti un’usura e non è detto che ciò è vero oggi lo sarà anche tra alcuni mesi, con l’usura che potrebbe portare a un particolato diverso da quello che crediamo e su cui impostiamo la nostra ipotesi di degradabilità dell’amido nel razionamento.
Che la questione della dimensione delle particelle non sia secondaria affatto, lo dimostra il fatto che che mais e sorgo non si discostano molto, a livello di degradabilità dell’amido, da altri cereali, se il particolato è molto fine.
Se invece le granulometrie sono più elevate le differenze crescono e si ampliano con il crescere della granulometria. Arrivando anche a valori di degradabilità a sette ore tre volte più bassi.
Senza dimenticare che l’amido non fermentato nel rumine va nell’intestino ma, se la granulometria è troppo grande, sfugge all’azione dell’amilasi pancreatica e raggiunge il grosso intestino dove dà luogo a fermentazioni anomale che distruggono l’equilibrio tra microbiota e ospite. Questo in particolare quando si lavora con quantitativi di amido importanti.
Quindi? Nel dubbio macinare molto fine e le differenze tra le materie prime da cui origina la farina utilizzata diminuiranno. E controllare che sia veramente così andando ogni tanto a setacciare la farina.
Foto di Elivelton Nogueira Veto da Pixabay