Intendiamoci, anche se il titolo – che è un titolo e quindi fa il suo mestiere – tende un po’ a indurre il sobbalzo, la parola scippo del benessere animale non indica niente di illegale.
Nessuna – per intenderci – sottrazione forzata e violenta di qualcosa a qualcuno da parte di qualcun altro.
Sottrazione però sì.
Nella fattispecie si parla di benessere animale e questo scippo dove sta?
Ci siete già arrivati. Intendo lo scippo agli allevatori (e a coloro che tecnicamente li rappresentano, li radunano e forniscono non di rado cappellini di varia cromatura) della “proprietà” di una materia che dovrebbe essere il loro pane quotidiano.
E che lo è ovviamente, perché senza benessere animale non c’è prestazione e quindi reddito.
E allora come è potuto accadere che il benessere animale diventasse appannaggio di altri, creasse una filiera di valutatori, definendosi in graduatorie e paginate di valutazioni che, per chi alleva, sono un ulteriore imposizione a cui fare fronte senza – o quasi – possibilità di avere parte in causa?
E che questo fosse poi fatto proprio dall’industria e divenisse una soglia definita sotto la quale il latte non si ritira, messa nero su bianco nei contratti?
Non che tutto ciò non sia corretto, in una logica di miglioramento continuo di prodotto e immagine. Quello che è sbagliato è che il mondo degli allevatori sia stato tagliato fuori da tutto questo.
O, meglio: che si sia lasciato tagliare fuori. Lasciando fare ad altri e alla fine ritrovandosi le regole da rispettare scritte, appunto, da altri.
Ma è la vecchia storia di sempre: troppo impegnati a guardare il proprio naso, i produttori in genere faticano a vedere quello che c’è oltre. Cioè guardare i nuovi scenari, capire le evoluzioni del mercato, le esigenze in mutazione dei consumatori, i nuovi valori che affiancano quelli vecchi.
Certo, non lo si può chiedere al singolo allevatore, ma ai loro punti di riferimento associato magari lo si potrebbe.
Perché altrimenti resta solo il danno: trovarsi nuove regole senza aver fatto nulla per anticipare l’esigenza, essere proattivi, creare – nel caso del benessere animale – un processo di definizione di protocolli e orientamenti da trasformare in certificazione, di “proprietà” degli allevatori, spendibile ad ogni trattativa, comunicabile al consumatore per migliorare la percezione che esso ha dell’allevamento.
Non staremmo a parlare di Crenba, se così fosse stato. Avrebbe un altro nome, un’altra organizzazione, magari sarebbe anche più inclusivo di altre sfaccettature che determinano l’allevamento nel suo complesso e pesano sul benessere “percepito” dal consumatore.
Inutile piangere sul latte versato, è andata così, come tante altre volte in passato.
Sarà così anche nel futuro?
Io sono pessimista e dico di sì.
Intendo, ad esempio, la questione delle emissioni di CO2 per unità di prodotto.
La vedo come una questione che sta crescendo e prendendo forma nella platea dei consumatori e di chi ne orienta le pulsioni (anche di acquisto) esattamente come a suo tempo fu per il benessere animale.
Muoversi ora, proporre un metodo di valutazione, creare protocolli, impegnarsi su obiettivi, insomma, anticipare il tema, è quanto servirebbe per evitare che di questo se ne occupino altri segmenti della filiera più lungimiranti e con una visione non necessariamente collimante con chi produce.
L’inerzia, il non affrontare il problema, il concentrarsi a guardare l’oggi (se non l’ieri) senza pensare alle esigenze nuove di domani, non fa altro che creare le premesse per il prossimo scippo.


Premettiamo, sono un allevatore come moltissimi, un poco fuori dalle medie, dalle statistiche, dallo “standard”. Mettendomi il cappello da stalla, da pascolo, da transumanza, da fienagione, da parto difficile, da allevatore insomma, tante conferme e tante critiche.
Partiamo dal ritardo. Molti di noi non sono in ritardo, anzi, siamo avanti, avantissimo. Anticipiamo.
Ogni parto anticipa la crescita della vitella o del suino o della jersey che deve nascere questa settimana. Poi, se il povero marchettaro e il povero commerciante del nostro o della nostra vitello/a non gliene frega nulla, beh, a noi invece frega tutto. Loro ci fregano, se pensi che nella filiera (media delle medie e ricadiamo nella banalità della statistica che tutto appiattisce e svalorizza), ci resta un misero 14% (dato 2018, oggi è leggermente diverso, ma appena il “consumatore” sarà di nuovo illuso che un vaccino che oggi con la vacca nulla ha più a che fare, sarà iniettato, ecco che il 14 diventerà il 12, chiudo una serie di inutili parentesi, ecco, allora ecco che tutto torna a girare con le regole del mercato e dell’economia di scala.
Noi invece non freghiamo nessuno. Il prodotto che ci è “barattato” con merce difficile da capire (promesse di versamento), è reale e tangibile. Semplicemente, ci accontentiamo della miseria pagata perché è nel valore del nostro lavoro, nella conoscenza millenaria delle nostre azioni, nella solidarietà vera tra gli allevatori (quelli che ancora si sporcano), il senso della nostra vita.
La distorsione del mercato, la focalizzazione sull’unico vero senso (il soldo) che oggi pare dominare, a noi crea sì, difficoltà, ma sono decisamente meno importanti del senso del nostro essere. Il benessere animale ci appartiene. Come noi apparteniamo ai nostri animali. Per capire cosa sia il benessere animale basta vivere con l’animale, come era normalissimo fare fino a che dio denaro è stato esaltato e pure lui snaturato.
Davvero bella la trattazione. Riflessioni interessanti, grazie.
INTERESSANTI CONSIDERAZIONI