“Quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto”. Mitica citazione da “Un pugno di dollari”, che ognuno può interpretare a suo piacere e aiuta a entrare nel clima del duello.
Chi, tra mais e sorgo, sia quello con il fucile e quale quello con la pistola non è ancora sicuro ma, mentre fino a pochi anni fa era decisamente il mais il signore incontrastato della foraggicoltura da latte, da alcuni anni le cose stanno cambiando.
Sta cambiando, soprattutto, l’atteggiamento generale verso la gestione della produzione foraggera: quello che sembrava un punto fermo intoccabile fino ad alcuni anni fa, più silomais possibile, adesso vacilla, non molla ma barcolla.
La novità foraggera di questi anni la crescita dell’abbinamento tra un cereale autunno-vernino e il sorgo (nella sua declinazione BMR) come coltura centrale da insilato, relegando – si fa per dire – il mais a coltura più marcatamente mirata alla produzione di pastone.
Potrebbe questo essere il nuovo equilibrio dei prossimi anni, e non è detto che sia un male.
Un sistema foraggero di questo genere garantisce grandi quantità di insilato con fibra di qualità, facilmente conservabile, appetibile. Riduce di molto i rischi di micotossine, non risente del problema diabrotica, ha dei costi di produzione inferiori.
E poi c’è il grande problema dell’acqua: decisamente il sorgo è più attrezzato per resistere e ripartire a momenti di grande caldo e siccità e riduce la necessità di irrigazioni in estati particolarmente impegnative rispetto al mais, presenta una varietà di ibridi sempre più completa e versatile, sfrutta meglio la fase autunnale.
Ovviamente il mais non scompare: il suo spazio non è più quello di asso pigliatutto, ma di un segmento foraggero specifico,con meno terreni impegnati tra quelli aziendali. E, in questo caso, il mais fa quello che sa fare meglio: produrre amido e energia.
Questo nuovo equilibrio, dicevo (anzi, dice chi l’ha adottato) non è solo un equilibrio che riduce il costo di produzione foraggera e aumenta la sanità di quanto c’è in trincea (e poi nella mangiatoia) ma è anche un volano che rimette in moto il rumine, con ingestioni notevoli di fibra di qualità, digeribile, appetibile, che riporta la ruminazione al centro della produzione di latte.
Che, soprattutto, corregge quell’acidità ruminale subclinica che non è un male necessario per razioni che sostengano alte produzioni, come si è finito col credere.
Considerazioni del tutto personali, frutto di pareri raccolti da allevatori e tecnici, proiettando l’esperienza di oggi sulle prospettive di domani, per favorire un confronto di idee, di opinioni, di esperienze.
Ovviamente considerazioni totalmente discutibili e contestabili, senza nessuna pretesa di cambiare un dogma con un altro.