Latte si fa latte, certo, ma la destinazione di questo latte è sempre più un fattore che condiziona chi lo produce. E lo fa, soprattutto, quando si tratta di mangiatoia e, prima ancora, di scelte agronomiche.
Credo che, con sempre maggiore nitidezza, si stia delineando una biforcazione importante sulla via, che coinvolge direttamente la scelta di fare e usare silomais.
Per chi produce latte destinato a formaggio l’ipotetico navigatore sta indicando una strada dove la quantità di silomais in razione diminuisce e diminuirà. Del resto, anche per un formaggio come il Grana Padano, dove non c’è un divieto all’uso di silomais, crescono le esperienze di coloro che lo stanno riducendo.
Non solo. Altrettanto significative, seppure agli inizi, sono le esperienze di aziende che hanno addirittura abolito gli insilati, su base volontaria, per arrivare a produzioni di Grana Padano di nicchia, senza insilati, spesso con produzione certificata biologica.
Comunque sia, chi fa latte per formaggi Dop, chi più chi meno, avrà un percorso verso il silomais sempre più frenato e vincolato.
Altro discorso invece per chi fa latte alimentare.
In questo caso, fatte salve tutte le precauzioni legate a un prodotto che deve essere eccellente – e non è facile – per il silomais potrebbe esserci ancora un futuro importante, sia pure con tutti i distinguo legati al suo costo di produzione. Se davvero, come sembra dall’osservazione di chi già ne fa uso, la tecnica dello Shredlege combina efficienza ruminale, migliore degradazione della fibra, valore energetico superiore, con la possibilità di crescere i quantitativi a livelli molto alti in razione, la via del silomais potrebbe farsi ancora interessante.
Tra l’altro, affrancando certe stalle dalla necessità (e dai costi) del fieno.
Il silomais diventa quindi un altro fattore che differenzia e differenzierà le modalità di lavoro e scelte gestionali di chi alleva in base alla destinazione del latte che produce.
Sempre meno per chi fa formaggi Dop, con nuove possibilità per gli altri.