Sono giorni difficili per la filiera del latte e non solo, in una situazione dove nessuno si è mai trovato prima, fatta di tanta incertezza e navigazione a vista.
Tuttavia non c’è dubbio che arriverà il momento in cui si ripartirà e, magari, potrebbe essere la volta in cui si riparte con qualche idea nuova e progetto in più.
Ora, la questione del latte è nota: se ne importa tanto, se ne potrebbe produrre di più, ci sono fasi di eccedenze che fanno precipitare tutto.
In questi momenrti si torna a parlare di polverizzatori, per dare una destinazione diversa a parte del latte, polverizzandolo appunto.
Possibile? Tecnicamente sì, ma praticamente ci sono alcuni punti da considerare.
Il primo è che una cosa del genere non può essere vista come una soluzione da accendere e spegnere alla bisogna: un impianto per la polverizzazione del latte deve lavorare H24 al 97-98% delle sue potenzialità. In continuo, dunque, senza soste. Quindi è una scelta strategica, non tattica.
In un recente convegno (prima che il coronavirus azzerasse tutto) a Cremona, si è parlato anche di questo ed è emersa una cifra interessante per dare una prospettiva anche di prezzo: 27 centesimi/litro è la soglia di prezzo per il latte polverizzato a cui fare riferimento.
Continuiamo. Perché da sola la questione è monca. Il latte in polvere che si fa deve necessariamente essere inquadrato in un progetto di filiera che includa una o più industrie importanti, ad esempio dolciarie, che possano poi esibire il latte italiano del tal distretto come un loro punto di qualità, con un impegno di ritiro di quantitativi certi.
Ancora, le aziende che si impegnassero in questpo progetto dovrebbero creare un loro disciplinare per dare un rigore alla produzione in termini di benessere animale, consumo di farmaci, sostenibilità ambientale, qualità del latte, magari anche genetica utilizzata. Il tutto per rendere questo latte, ancorché in polvere, distinguibile dal resto del latte che galleggia sul mercato.
Naturalmente la cosa dovrebbe essere comunicata e promossa, servirebbe un investimento importante per iniziare, per far conoscere l’esperienza, il marchio, i produttori, le caratteriostiche del latte.
In Italia c’è l’esperienza Inalpi e la torre di sprayzzazione di Moretta, l’unica. Potrebbe diventare un punto di riferimento per altre esperienze simili? Certo alle condizioni descritte sopra: un investimento strategico, che metta insieme produttori e industriali (bypassando in questo caso quelli soliti lattiero-caseari, perché ci si rivolgerebbe al dolciario), con quantitativi fissi di latte ad esso destinato, nella buona e nella cattiva sorte.
E poi chi dice che il solo sbocco sia la consegna all’industria? Perché non forzare la mano e proporre il latte in polvere anche al consumatore finale? Tutti hanno avuto tra le mani biberon e latte in polvere per l’infanzia: se è sicuro per i bebè perchè non può esserlo per tutti? Per dire: la logica c’è. La logistica poi sarebbe molto più semplice del latte Uht o fresco, scadenze lunghe, confezioni ridotte.
Certo, anche qui si deve comunicare bene, creare, col marketing, il valore aggiunto per sovrapporre una fetta di prezzo a quella soglia di base a cui si accennava.
E non dimentichiamo le possibilità per l’export, quando e come questo ripartirà.
Qualcuno già lo fa. Inalpi – e chi altro potrebbe? – propone al consumatore confezioni di latte in polvere. Vuol dire che non è fantascienza.