Chiuderà una stalla su tre. Questa la brutale sintesi degli slogan. La situazione non lascia vedere a brevissimo margini di ottimismo superiore.
Tuttavia c’è un indizio da seguire: la ripresa del prezzo del petrolio.
È ormai assodato che le commodity procedono in alto o in basso, in maniera associata, quasi sostenendosi e agganciandosi l’un l’altra. Il latte, da anni ormai, segue nelle quotazioni mondiali l’andamento del petrolio e quindi staremo a vedere se è una rondine che annuncia la primavera o solo un’illusione ottica.
Torniamo però alla brutale apertura: un’azienda su tre chiuderà.
Ma per le altre due non si potrà pensare, a tempesta passata, di riprendere tutto come prima.
Non sarà possibile tornare a mettere nel cassetto le timide iniziative di aggregazione che stanno nascendo per unificare il più possibile contrattazioni e vendite di latte e avere anche maggiore voce in capitolo per forzare la mano e vincere la melina sull’etichettatura e la dichiarazione di origine sulla confezione.
Non sarà possibile continuare a pensare di essere un’entità che merita un certo prezzo del latte a prescindere solo perché fa un duro lavoro e fa un ottimo prodotto. Nel mondo perfetto è così, in questo no. Ricordo le tessiture che punteggiavano la Valle Seriana: grande lavoro, grande prodotto. Poi la desertificazione con il prodotto cinese o indiano a prezzi impossibili. La realtà spesso non sa cosa sia la giustizia.
Il prezzo giusto lo si conquista offrendo valore, facendolo conoscere da chi compra, muovendosi con strategia e compattezza. Aspettare che lo conceda la politica (o chiunque altro, che è portatore di altri interessi) è come aspettarsi che la volpe faccia buona guardia al pollaio.
Non sarà possibile continuare a ignorare la sfida della trasformazione del latte, perché una materia prima, per quanto nobile, fa sempre più fatica a pagare i costi per produrla (e non vale solo per il latte).
Non sarà possibile continuare a pensare che il miglioramento tecnico delle stalle sia una cosa che riguarda solo la singola azienda e non la collettività, e per questo servirà condivisione di dati, organizzazione degli acquisti, valutazione mirata (e condivisa) delle consulenze e dei prodotti.
Non sarà possibile condurre un’azienda senza un’organizzazione finanziaria, amministrativa e contabile al passo con il capitale coinvolto.
Non sarà possibile continuare a far gestire a una pletora di soggetti gli interessi di chi produce, tornando alla concretezza dei numeri e dei risultati per valutare carriere, palcoscenici, tessere e stipendi.
Bisogna pensarci per tempo. Siamo col culo per terra, dunque la situazione è ottima. Quando si è nella difficoltà è più facile vedere oltre.
La consapevolezza di essere artefici del proprio destino non può fermarsi alla protesta di oggi, ma deve far nascere idee e percorsi di crescita nuovi, che dall’oggi prendano forma e sostanza per il domani.
Il mondo è cambiato. Pensare di affrontare il dopo crisi con il vecchio abito con cui nella crisi si è entrati è come immaginare di far colpo su una donna presentandosi al primo appuntamento con ghette, cilindro e palandrana.
Salve,
l’impressione è che su queste tre stalle, quella che chiuderà non sarà la meno competitiva, quella con volumi più bassi o quella meno capitalizzata.
A questi livelli di prezzo e con il pessimo scenario di breve periodo mi pare che si chiuda(laddove le banche lo permettano) per crisi di liquidità quindi chiude chi ha la necessità di un capitale circolante maggiore legato a numero di dipendenti, alti volumi di acquisto alimenti, interessi per investimenti.
Il rischio è che rimanga a galla chi ha un’economia “più semplice”, ma ha anche un’attività monolitica, dove gli investimenti sono ridotti, il lavoro è solo quello famigliare (spesso senza eredi nell’attività) e non ha la managerialità sufficiente ad affrontare i cambiamenti di medio lungo periodo, men che meno quelli di breve; però fa “pochi conti”, si accontenta di quello che offre il mercato e sopravvive, sfruttando solo i momenti alti del mercato. Questo tipo di aziende resistono, ma non possono essere quelle che rifondano il comparto.
Per quanto attiene l’etichettatura di origine -sacrosanta- non ci conterei troppo. Sul mercato no-dop i volumi di vendita del marchiato ITA non reggono la competizione del resto. Non si può scommettere che il consumatore scelga ITA a prescindere. Il prezzo fa la differenza e la qualità di un prodotto fabbricato all’estero o con MP estere non è detto che sia inferiore.
La trasformazione: sicuramente crea valore aggiunto, ma chi trasforma? Polverizzare ulteriormente l’attività di trasformazione (quanti sono i caseifici in Italia?!?) non è la soluzione. Player competitivi sul mercato nazionale ed EU ce ne sono; sono industrie di trasformazione e si trovano e troveranno sempre a competere sul mercato EU, con altri player che dispongono di materia prima a miglior prezzo.
Certo, ci sono le DOP, ma per loro natura non possono farsi carico dell’intero comparto.
E’ complicata.
Saluti e complimenti per i blog.
RB