L’agroalimentare italiano non ha eguali al mondo, è una ricchezza immensa, rende molto meno di quanto potrebbe e dovrebbe. Questo vale sicuramente per chi produce, come le vicende del prezzo del latte insegnano.
Il dibattito sottolinea continuamente – e giustamente – le mille virtù del latte italiano, che arriva per la maggior parte da stalle dove la gestione, l’alimentazione, i controlli non hanno forse uguali nel mondo.
Nessuno mette in dubbio questo, ma non basta più fuori dal recinto delle Dop.
E’ importante la produzione di latte, infatti, ma altrettanto importante – se non di più – è la fase industriale.
Anche qui si nasconde un patrimonio di conoscenze, capacità, creatività, che, come per la materia prima, probabilmente non ha uguali nel mondo.
Certo, ci piace l’idea di nicchia, di tradizione, di casaro antico: e tutto questo ha un senso ovviamente. Ma i mercati vicini e lontani non si conquistano solo con la nicchia dei prodotti sigillati da antichi protocolli.
E, soprattutto, c’è metà del latte che si produce, quello in esubero per le Dop, che deve trovare un modo per acquisire valore.
Per questo c’è tutto il mondo dei prodotti nuovi, elaborati in base a gusti che cambiano, a esigenze multiple, a richieste nuove.
Questi prodotti sono sempre più legati a processi industriali che – fino a un certo punto – possono anche essere realizzati con del generico latte-commodity. Addirittura, per forzare il ragionamento, senza latte (ossia la galassia delle produzioni simil-latte con origine vegetale)
Lo hanno capito le grandi multinazionali che puntano per i prossimi anni a sviluppare prodotti diversi e mirati per allargare le fasce di mercato in tutto il mondo.
Quindi?
Quindi è vero che produrre una materia prima eccellente è un punto di forza italiano, ma se si delega di fatto ad altri tutto ciò è connesso alla lavorazione industriale, alla trasformazione, alla ideazione e creazione di nuovi prodotti, i margini scivolano altrove.
La produzione deve quindi assolutamente recuperare un protagonismo anche nel segmento successivo, quello della lavorazione industriale, sfruttando tutte le possibilità di aggregazione delle mille eccellenze sparse sul territorio, magari studiando alleanze indedite – sacrileghe per certo pensiero esclusivista – con quelle poche realtà industriali piccole o medie ancora autonome che potessero starci in una prospettiva di condivisione di filiera.
È difficile essere solo fornitrici di materia prima, ma è anche difficile, per chi è piccolo, essere solo trasformatore. L’unione di due debolezze potrebbe creare una forza nuova, capace di dare prospettive al dopo crisi.
L’amara realtà dimostra che la centralità non è di chi governa solo quantità e qualità della materia prima, ma di chi governa i processi industriali per la sua trasformazione e può trattare con sufficiente forza con la distribuzione.
I produttori di latte sono sempre stati troppo presi in altre faccende per occuparsene direttamente, lasciando crescere un mondo industriale che – certo – sul latte italiano ha fatto la sua fortuna, ma anche su capacità e tecnologia sviluppate e perfezionate nel tempo.
Proprio per questo gli storici marchi sono finiti nel carrello della spesa delle grandi multinazionali, che in Italia però hanno sempre fatto shopping senza il minimo disturbo di cordate alternative legate direttamente alla produzione.
Il valore si crea sempre di più nei segmenti della filiera successivi alla produzione. Questo è un dato di fatto incontrovertibile. Chi controlla questi segmenti dà le carte al tavolo da gioco e può anche essere tentato di tenersi le carte migliori.
Produrre qualità non basta più se a trasformarla è qualcun altro.
E’ un po’ come quel tale che scriveva ogni giorno una lettera d’amore alla donna amata. Lettere bellissime, opere d’arte, qualità eccelsa.
Ogni giorno una lettera.
Poi la donna ha sposato il postino.