Il reddito delle famiglie italiane è diminuito del 20% negli ultimi 20 anni. Non è un’opinione, è un dato di fatto: fredda statistica.
Del resto chiunque può verificare nelle proprie tasche come stava vent’anni fa e come sta ora.
In questo ventennio, per usare un termine temporale che alla luce delle nuove disposizioni potrebbe richiamare assonanze proibite, in questo ventennio, dicevo, sono diminuiti i soldi ma sono aumentate , oltre alle tasse locali, anche le disposizioni, gli obblighi, le normative a carico, tra gli altri, di chi produce.
Il tutto secondo il teorema perfetto: più norme, più regole, più costi, ma prezzo di vendita più alto perché il consumatore premierà, apprezzerà, comprerà… eccetera eccetera.
Tantissime norme (magari che si sovrappongono, magari che cambiano nell’interpretazione tra un ente e l’altro o tra un confine e l’altro) che servono per garantire il consumatore, ma anche sono la fortuna di legioni di controllori e burocrati di vario conio e pesano su chi produce, in una maniera che è cresciuta negli anni a livello esponenziale, rendendone sempre più onerosa l’attività.
Ora, la domanda provocatoria è: siamo così sicuri che tutto questo percorso che spinge verso un allevamento sempre più costoso da realizzare, sia davvero il futuro, oltre che il presente, per la maggioranza dei consumatori italiani?
Se i redditi delle famiglie diminuiscono e si dilata la fascia di coloro che sono ai margini della soglia di povertà, davvero si può credere che per essi il benessere animale sia la questione fondamentale?
È una provocazione, per carità, ma ogni dibattito deve stare coi piedi per terra e non farsi trascinare verso l’ideologia di una perfezione impossibile, che costa e nessuno poi paga.
Quindi: o si traccia una linea che segni il punto di incontro ragionevole tra istanze animaliste, necessità di chi alleva, diritti del consumatore, o l’inerzia in atto porterà a una situazione in cui si produrrà a costi di nicchia, ma con quantità di massa.
Questo significa che una parte di chi produce verrebbe spazzata via dal mercato, per dirla senza troppi giri di parole, perché il mercato è fatto, nella sua fetta più grande, da quelle famiglie che in vent’anni hanno visto svuotarsi le tasche.
La produzione italiana diventerebbe solo una produzione di nicchia, di ultra-dop, rivolta sempre di più all’export, con quantità in calo e con importazioni crescenti a coprire le esigenze della massa di consumatori, che in percentuali crescenti non può accedere allo scaffale delle eccellenze.
Si creerebbe così una situazione paradossale: le richieste, le norme, le imposizioni, il costo burocratico che gravano sull’allevamento porterebbero a una diminuzione delle aziende e della produzione complessiva italiana, quella che il consumatore dichiara di prediligere, e ridurrà sempre di più il numero di italiani che se la potranno permettere.
Aprendo così spazi sempre più ampi alle importazioni dall’estero, che alle spalle hanno qualità, sicurezza, sostenibilità, benessere animale tutt’altro che migliori.
Certo, anche in Grecia ci sono eccellenze. Peccato che ormai buona parte dei greci non possa più permettersele.