Chi produce per vendere e non per un proprio passatempo sa che, per vendere, deve essere scelto da una platea di clienti. Con tutte le differenze dei casi, questo vale per tutti.
Vale anche per chi alleva e produce latte.
Vale, anche se, a dire il vero, il concetto che quello che si produce deve trovare poi chi lo compra e da queste dinamiche scaturisce il prezzo che si riesce a portare a casa non sempre è considerato come l’asse portante di ogni discorso successivo.
Quando si produce per vendere, e, soprattutto, quando sono in tanti a produrre una cosa simile, il primo obiettivo di chi vuole dirigere il proprio business e non subirlo, è quello di differenziare la propria merce, renderla particolare, riconoscibile, unica o quasi.
In particolare cercando di capire quali sono e quali saranno le richieste di chi compra, per essere pronto ad offrirgliele prima degli altri. Così facendo si assicurerà un vantaggio sul resto dei produttori simili e il “di più” che offrirà potrà garantirgli un prezzo maggiore da parte del compratore.
Non per sempre, perché col tempo anche il resto dei produttori si adeguerà e si creerà un nuovo standard di riferimento. A questo punto non ci sarà più un premio di prezzo per nessuno: semplicemente sarà il pre-requisito per continuare a vendere quel determinato prodotto.
Ma non frattempo il produttore lungimirante avrà già individuato un nuovo target, ci lavorerà su e sarà pronto più avanti, prima degli altri. Certo, per fare questo sostiene un costo, ma lo chiama investimento.
Traggo questi spunti da una chiacchierata con un allevatore che condivide e applica questi principi.
Da qualche anno le sue scelte riproduttive considerano solo tori omozigoti per la variante A2 della beta-caseina e la variante B della kappa-caseina.
Nessuno glielo ha chiesto. Semplicemente vuole essere pronto per quando queste caratteristiche del latte saranno ambite molto più di adesso e, quindi, improvvisamente ci sarà un balzo nella richiesta di un latte del genere e pochi in grado di offrirlo.
Il suo latte sarà un latte, per certi versi, differente dal resto.
Certo, potrebbe non avverarsi questo scenario. È un piccolo rischio imprenditoriale, una scommessa che, senza pregiudicare il presente, può dimostrarsi vincente in futuro.
Ma questa scommessa vale anche per altro: chi fosse partito in tempi non sospetti sul minimo uso di farmaci, sul massimo benessere animale (ovviamente con certificazione rigorosa e adeguata comunicazione) adesso non sarebbe nelle condizioni di doverlo fare comunque (visto che sta diventando un pre-requisito), senza avere goduto del periodo in cui tutto ciò era un “di più”.
Potrebbe valere, nel prossimo futuro, per la certificazione della preparazione del personale che si occupa degli animali, per la presenza minima di zoppie in stalla (movimenti degli animali senza problemi), per la possibilità di alcune ore di movimento libero al pascolo, per la minima contaminazione da spore del latte, per la permanenza del vitello con la madre qualche tempo dopo la nascita. Alcuni dei temi che si muovono nelle retrovie e potrebbero diventare di attualità e in qualche misura vincolanti.
Certo, potrebbero anche non diventarlo. Ma essere pronti prima, nel caso lo diventassero, darebbe sicuramente un vantaggio sugli altri, perché pochi sarebbero già pronti e il loro prodotto sarebbe più ricercato, inevitabilmente.
Ovviamente, tornando all’allevatore dell’esempio, nel suo latte c’è anche il resto: buoni titoli generali, basse cellule, bassa carica batterica e via dicendo. Ma queste cose erano un “di più” qualche decennio fa, ora, anche loro, sono solo un pre-requisito.